Vi è piaciuto The Killer, l’ultimo film di David Fincher con Michael Fassbender? Avete capito la morale del finale? Ecco come la interpretiamo noi
The Killer: vivere secondo le regole
Il killer protagonista del film (Michael Fassbender), che non a caso non ha nome, è nel suo “lavoro” sempre preciso e metodico. Segue regole prescritte, che si ripete in mente come un mantra, fedele alla sua morale: “Non me ne frega un cazzo”, dice. Questo l’atteggiamento che gli consente di essere così efficiente nella sua attività.
Seguire le regole e prevedere tutto, pensare a ogni possibilità e non cedere ad alcuna debolezza sono, secondo il killer, le misure necessarie per assicurarsi di far parte dei “pochi” che sfruttano i “molti”, in un mondo nel quale nessuno conta davvero per più della propria esistenza e l’unico scopo è quello di trarre il meglio e il massimo finché si può.
Un’esistenza vuota
Un’esistenza che il killer ci tiene a definire scettica, non cinica. Per lui non esiste nulla dopo la morte e ogni valore e ogni emozione non hanno significato alcuno. Vivendo secondo le sue regole e la sua precisione, lontano da ogni ideologia o padrone, si assicura il meglio per sé stesso finché non arriverà anche la sua ora.
Ma è davvero così? Abbiamo presto la prova del contrario: nel colpire la sua vittima all’inizio del film, il killer sbaglia mira. In realtà è una coincidenza, non è colpa sua. Oppure sì? Nel prosieguo, cercando di punire tutti coloro che hanno deciso di rifarsi del colpo mancato aggredendo la sua fidanzata, il killer mostra crescenti tratti di umanità, in ampio contrasto con quella freddezza di cui si vanta.
Sbagliare è umano
Di vittima in vittima il killer ci appare sempre meno preparato, affrontando gli imprevisti con sempre maggior insicurezza e cavandosela spesso per un soffio. Fino a che non incontra l’esperta (Tilda Swinton), la quale suggerisce che in quel primo assassinio a Parigi il sicario, forse non volutamente, forse istintivamente, avrebbe sbagliato apposta.
Perché? Forse per ritrovare in sé quella umanità che le sue ferree convinzioni e la sua rigida etica gli impongono di negarsi. Stesso motivo per cui, quando si reca ad assassinare l’esperta, non lo fa subito e a sangue freddo ma le dà modo di parlare; non per sentire ciò che ha da dire, ma per essere da lei rassicurato. Oppure, forse, per sentirsi dire da altri ciò che non sa dire a sé stesso.
Nel finale, sedendo accanto alla fidanzata ripresasi dall’aggressione, e gustando una semplice colazione prendendo il sole in una bella villa, il killer ammette simbolicamente le proprie debolezze in quanto umano. Ossia, uno dei “tanti” da lui disprezzati. La verità è che siamo tutti umani e per quanto possiamo imporci regole o elevarci al di sopra di molti rispondiamo tutti sempre a qualcosa di più intimo, insito nella nostra natura: il nostro istinto.
Il killer tesse quindi la sua ragnatela di uccisioni non per assicurare sé stesso e la sua posizione, ma per vendicare ciò che è successo alla fidanzata, Magdala, e anche per paura di poter essere lui stesso, infine, vittima di quei meccanismi infami. In questo senso non è tra i “pochi”, non è privilegiato e non è migliore. Ciascuno rischia, a suo modo e nel suo mondo. Lui infine lo capisce, e smette di illudersi: essere umani è difficile per tutti.