Questo è in parte il caso di Ymir, personaggio tra i più tragici e sfortunati tra quelli scritti da Isayama. A lei non viene nemmeno concessa la rappresentazione in scena della morte, ci è solo raccontata e in maniera frammentata lasciata intravedere.
Ymir è un personaggio che si è trovato nella storia quasi per caso, un gigante che mangiando il compagno di Reiner, Berthold e Annie è potuta tornare umana rubando il potere del gigante mascella.
Per un personaggio che è entrato casualmente nella storia, o nella Storia, viene riservato un finale ancora più tragico, l’anonimato. Tutte queste esperienze, diverse tra loro, di morte, insieme agli aspetti di cui abbiamo parlato precedentemente, testimoniano nuovamente il forte pessimismo di base dell’opera di Isayama.
La morte è un aspetto stabilito per i membri dell’Armata di Ricognizione e viene difatti continuamente richiamata, come un destino a cui non poter sfuggire, dalle apparizioni di tutti i membri deceduti ai pochi compagni rimasti in vita.
Questo sottolinea anche il valore della famiglia che si è venuta a creare tra i personaggi dell’armata, molto più stretta della semplice amicizia. Così il richiamo dei morti sembra diventare un invito a tornare a casa, a ricongiungersi a loro.
Destino che spetta infatti a Hange, personaggio che risente della recisione di questi legami in modo particolare, trasformandola da una caratterizzazione sempre allegra anche dinnanzi alla morte in una maschera quasi impassibile.
Alla prima occasione buona decide infatti di sacrificare la propria vita per permettere, si, la fuga ai compagni rimasti, ma soprattutto il suo diventa un atto con lo scopo di ricongiungersi alla famiglia che gli era stata man mano sradicata. Da una parte chi muore, dall’altra chi sopravvive.
La questione non è nemmeno semplice come ci si potrebbe aspettare, molti personaggi avrebbero preferito la morte rispetto al destino di solitudine che gli spetta. Mikasa, come già abbiamo visto, è una di questi (le rimane unicamente la sciarpa che Eren le regalò il primo giorno in cui si conobbero) e come lei condivide lo stesso destino Levi.
Levi si è visto portare via tutto fin dall’infanzia, ha visto progressivamente sparire ogni persona che amava, ha perso la sua famiglia per ben 3 volte: prima la madre, poi gli amici con cui ha trascorso la giovinezza e infine l’intera Armata di Ricognizione.
Quello che resta alla fine della serie è un personaggio senza più nulla a cui fare ritorno, rimasto in vita unicamente come simbolo dio ciò che porta via la guerra. Anche qui il pessimismo è evidente, la vita diventa un destino peggiore della morte stessa.
L’Attacco dei Giganti: Libertà e Destino
Parlando precedentemente di Eren avevo accennato quanto il suo fosse un destino tragico, il più gravoso tra quelli dei personaggi della serie.
L’Attacco dei Giganti è una serie, come abbiamo ampiamente visto fino ad ora, composta di continue contrapposizioni di elementi, con lo scopo di sottolineare da una parte la complessità, mai unica, di certe situazioni o personaggi e dall’altra per accentuare il valore tragico delle vicende.
Questa contrapposizione è evidente anche nella struttura della serie nelle sue due parti: se per la prima metà circa l’autore lascia intendere che le scelte di ognuno possano portare a dei risultati, a raggiungere i proprio obbiettivi, la seconda metà mette ambiguamente in bilico tutta questa visione.
La libertà di scelta e il destino dell’umanità, e di conseguenza dei personaggi, sembra in realtà già scritto e impossibile da variare. Eren è l’unica persona conscia di questo destino, perché lui ha avuto la ‘fortuna’ (ironico chiamare così un tale peso) di vedere tuto ciò che succederà da li fino alla sua morte.
Ogni sua azione è mossa da un filo che non può spezzare, è un automa nelle mani di una entità accomunabile al Destino dell’umanità intera, come se questo fosse una divinità impersonificata. Il dramma interiore di Eren è dato proprio dalla sua impossibilità di cambiare il seguito degli eventi e di essere cosciente della sua futura morte.
Diventa ancora più insopportabile per lui è l’idea di dover ferire amici e amori di una vita come Mikasa e Armin con le parole che rivolge loro nel ristorante di Nicolò, ma tutto ciò era necessario per farli allontanare da lui e poterli così rendere capaci di compiere il loro destino, fermandolo nel prossimo futuro.
D’altronde la storia era già scritta fin dal primo volume, ma questo lo scopriamo solo alla fine, come Eren scopre nel momento in cui bacia la mano di Historia. Scopre addirittura di essere stato lui a uccidere sua madre, per darsi un motivo di agire e arrivare a l’obbiettivo finale. Ironico è pensare che l’essere più potente dell’universo creato da Isayama non sia altro che una pedina nelle mani di qualcosa di indefinito ancora più grande di lui.
Per Eren è un dramma insopportabile e da qui deriva il suo, inizialmente, inspiegabile cambiamento. Vedere passato e futuro della sua vita, del destino del genere umano, cosa ha fatto e cosa sarà costretto a fare, lo muta in uomo senza più anima, una maschera che perpetua la sua esistenza per seguire un percorso già scritto.
Tutta la sua disperazione, fino a quel momento mascherata e tenuta dentro di sé, scoppia nel capitolo finale quando dialoga con Armin: Eren scoppia in lacrime, lascia scaturire tutta la frustrazione del destino che gli è spettato e della vita che gli è stata preclusa.
Insopportabile diventa il pensiero di non poter avere mai più al suo fianco Mikasa, il suo dolore è la tragedia più grande che Isayama è riuscito a creare nell’opera. Rimane ambigua nel finale la posizione dell’autore sulle reali aspettative dell’umanità: da una parte è innegabile che l’idea di base dell’opera segni in negativo il destino dell’uomo, ossia una infinita ricerca dello scontro fratricida. Dall’altra il finale che spetta a Eren e compagni lascia una flebile speranza.
Seppur il salvataggio dell’umanità non sia assolutamente frutto dello sforzo dei personaggi ma sia anch’esso già scritto e previsto da Eren (e anche qui c’è da ribadire quanto L’Attacco dei Giganti sia profondamente distante dalla classica idea shonen in cui lo sforzo dei protagonisti porta sempre a sconfiggere i nemici e salvare l’umanità) questo dà la possibilità di nascita a un mondo nuovo che, anche se in parte già condannato a ripetere gli orrori della guerra, può forse permettere ai personaggi e alle nuove generazioni di poter avere finalmente la possibilità di scegliere il loro destino, ormai lontani dalle grinfie di imposizioni millenarie che li avevano inchiodati fino a quel momento.
Sebbene il finale rimanga vago su questo aspetto, lasciando uno spiraglio a cui aggrapparsi, è evidente come L’Attacco dei Giganti sia una serie dai connotati principalmente pessimistici, come ho cercato di mostrare nei vari aspetti di questa analisi.
Cosa rimane dopo L’Attacco dei Giganti
Abbiamo trattato diversi aspetti dell’opera di Isayama per avere un quadro quanto più completo possibile delle modalità con cui è stata scritta e strutturata, ponendo in più di una occasione l’accento sugli aspetti che la rendono una serie completamente estranea al contesto in cui è inserita (nonostante a una visione poco attenta possa non saltare subito all’occhio). Senza dubbio L’Attacco dei Giganti segna uno spartiacque fondamentale nella storia del manga, ponendosi come opera cardine del fumetto contemporaneo e, si spera, come modello per serie future.
Il successo clamoroso e mondiale dell’opera deve incentivare autori e riviste a investire energie nella creazione di opere che al contempo possano soddisfare grandi fette di pubblico e trattare in modo maturo e innovativo la materia di cui sono fatte.
Strutturalmente l’opera di Isayama ha già fatto scuola e lo vediamo anche in serie di successo degli ultimi anni: esempio lampante di questo è The Promised Neverland, che sembra quasi una versione semplificata e svuotata della complessità morale e della storia di L’Attacco dei Giganti, cui tuttavia si rifà precisamente nella gestione della struttura narrativa a incastro, nel modo di narrare e tenere alta la curiosità dello spettatore con tecniche come il cliffhanger e nell’idea di una umanità minacciata dall’esterno e dall’interno contemporaneamente.
L’Attacco dei Giganti come abbiamo visto riporta nello shonen l’idea del fumetto e dell’animazione degli anni ‘70 e ’80 permettendo finalmente di mettere in scena non più un male assoluto e senza volto, tanto classico del mercato degli anni 2000, ma un’idea precisa presso cui costruire una forte accusa.
È il trionfo del fumetto commerciale che si rifà finalmente intrattenente ma attento al sociale, alla realtà. Il clima di ostilità verso la guerra di cui Isayama infonde la sua opera è strettamente connesso alla contemporaneità in cui esce l’opera. Forse rintracciare le origini di questo sentimento nelle politiche interne dell’ex primo ministro Abe è uno spunto su cui far particolare attenzione.
Infatti fu proprio dal 2007 al 2014 che Abe ruppe il decennale articolo 9 della costituzione giapponese, redatto dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale e che poneva il Giappone in una posizione assolutamente anti-militarista. Con le sue manovre Abe riarmò e riformò l’esercito del Giappone nonostante le critiche di molta popolazione giapponese, ancora segnata dagli orrori della guerra (politica perpetuata negli ultimi anni anche dall’attaule primo ministro giapponese Fumio Kishida).
Ecco come L’Attacco dei Giganti, iniziata a serializzare proprio nel mezzo di questo clima (2009), possa essere stato molto influenzato dall’atmosfera, fino a diventare e a raccontarci quello che possiamo leggere oggi.
Il passaggio dal male fantastico dei giganti a quello reale dell’uomo è un elemento su cui porre necessariamente l’attenzione, anche collegandolo al suo contesto storico e sociale. Isayama in questi 12 anni di serializzazione è stato in grado di inserire nella sua opera tutta la complessità del genere umano, con una straordinaria capacità di renderlo tremendamente interessante, portando al lettore un dramma tra i più toccanti che l’industria del fumetto giapponese ha creato nel nuovo millennio.
Grazie di tutto.
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