Il momento chiave dell’arrivo nello scantinato di Eren, con le rispettive scoperte su ciò che si cela realmente dietro le mura, non è altro che quel determinato momento della vita in cui ci si accorge realmente di essere cresciuti e di dover imparare a vivere in un nuovo mondo, con tutto il carico di responsabilità maggiori che comporta.
Da qui le due reazioni poco sopra citate: da una parte un nuovo stupore per le innumerevoli vie che ci si aprono davanti all’inserimento nella società dei ‘grandi’, simboleggiata magistralmente nella scena in cui i nostri protagonisti vedono e si immergono con stupore per la prima volta nell’immensità dell’oceano che circonda la loro isola, dall’altra le difficoltà a inserirsi in questa società, a impararne i difficili meccanismi.
Tutto questo crea ovviamente uno straniamento a cui è difficile reagire e abituarsi: i personaggi dell’isola Paradis si trovano davanti alla caduta di ogni certezza e ideale avuti fino a quel momento, devono confrontarsi e scoprire in pochissimi anni un carico di evoluzione tecnologica che 100 anni rinchiusi nelle mura gli hanno precluso; ma, soprattutto, faticano a comprendere le persone esterne, le loro motivazioni e a legarcisi.
I vari personaggi si sentono come estranei in un mondo che non gli appartiene, l’uscita dal nido familiare, come ha scritto tanto bene Pascoli, diventa estremamente problematica.
L’aver affrontato le insidie della vita adolescenziale, l’aver ucciso o scacciato tutti i giganti che minacciavano l’isola, non sono altro che la preparazione a un qualcosa di ancora più grosso. L’essere cacciati dai giganti fa sembrare a molti personaggi l’isola Paradis che conoscevano quasi un paradiso a confronto con il mondo esterno.
Risulta evidente come la società descritta da Isayama sia un concentrato di tutte le peggiori qualità dell’uomo, in cui qualche piccola individualità è l’unico baluardo di lucidità del popolo umano.
L’Attacco dei Giganti è un coming of age tutt’altro che spensierato e positivo (come normalmente sono composte le opere di questo filone), anzi pone parecchia enfasi nell’evidenziare come l’entrata nella società corroda anche l’uomo più virtuoso; l’innocenza del bambino, del ragazzo, pare l’unico momento in cui una persona è realmente pura (come vedremo tra poco).
Testimonianza di questo è un elemento molto interessante nella rappresentazione dei caratteri dei protagonisti da parte di Isayama, un tratto che man mano si fa strada in ogni singolo personaggio della serie, nessuno escluso: la perdita del sorriso, perfino nelle persone più genuine come Sasha.
Ponendo l’attenzione sui momenti che seguono il salto temporale post scoperta dello scantinato fino al finale della serie notiamo un scomparsa, nemmeno graduale ma immediata, del sorriso dai visi di ogni personaggio. Le facce sono sempre pensierose, depresse, imbronciate, in lacrime, indecise.
Ogni connotato facciale della spensieratezza e della felicità, che nonostante le grandi difficoltà affrontate ogni giorno dai personaggi dell’opera campeggiava sui loro visi, non è altro che un vecchio e malinconico ricordo.
La crescita e soprattutto l’inserimento in ‘questa’ società, sembra volerci dire Isayama, ci porta a perdere il fascino per la vita, quel fascino che ci permette di sorridere anche in mezzo alle difficoltà.
Il tono della seconda parte della serie è difatti estremamente greve, e anche i pochi momenti di leggerezza e felicità della prima parte di storia scompaiono totalmente. Anche in questo caso è interessante porre l’attenzione sull’intelligenza di Isayama nel giostrare le ambientazioni nell’arco di tutta la narrazione.
La prima parte è immaginata in un contesto totalmente fantasy-medievale, dove l’elemento fantastico porta con se il fascino di un qualcosa di puro e andato perso, che riscalda i cuori dei personaggi e i loro sogni, le loro ambizioni.
Con lo spostamento al grigiore della società ‘contemporanea’, agli ammassi di palazzi che negano ormai ogni fuga verso il fantastico, corrisponde invece la freddezza di tutti i personaggi e la decaduta progressiva di ogni loro ideale e sogno.
La grandezza di alcune opere sta spesso nei piccoli particolari, nei piccoli gesti o, come in questo caso, nella mancanza di essi: un sorriso negato allo spettatore, ai personaggi dell’opera, nella sua piccolezza diventa una triste immagine che annienta completamente la speranza.
L’Attacco dei Giganti è indubbiamente uno dei più affascinanti, ma pessimisti, coming of age del nuovo millennio, capace di dare una nuova chiave di lettura a un genere parecchio carente di idee negli ultimi anni, mischiandolo e camuffandolo magistralmente grazie alle altre influenze e stili di cui si compone il lavoro di Isayama.
L’Attacco dei Giganti: la vera natura dell’uomo
Per parlare di come l’uomo viene descritto in L’Attacco dei Giganti è necessario ricollegarci ai discorsi che avevamo accennato in fase di analisi delle influenze dell’opera; cercheremo quindi di capire come la brutalità e la guerra siano rielaborati da Isayama.
Quello che traspare dalle pagine di L’Attacco dei Giganti è proprio la brutalità della natura umana e il suo legame intrinseco con la guerra. Non è un caso che l’opera in toto sia una escalation di violenza sempre maggiore, dalla già citata apertura fino al massacro di gran parte dell’umanità nelle battute finali.
Ancora più terrificante è pensare che all’inizio questa violenza venisse mascherata e identificata dalla figura ‘esterna’ e aliena del gigante, mentre nella successiva metà dell’opera l’unico motore di questa diventa l’uomo stesso (nonostante ne fosse comunque già dai primi capitoli il mandante nascosto).
Isayama richiama iconograficamente alla mente, per sottolineare la malignità della guerra, due dei momenti più tragici della storia del ‘900: la reclusione del popolo eldiano è senza troppi veli riconducibile a quella degli ebrei da parte dei nazisti, mentre la trasformazione, e soprattutto la sua conseguenza, del gigante colossale richiama chiaramente la forma delle esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki (ennesima rappresentazione di questo evento che l’animazione giapponese continua a produrre).
La guerra diventa la costante ambientazione di tutta la seconda parte dell’opera e i massacri si fanno sempre di più grandi proporzioni. La follia del genere umano sta nelle figure che la guidano dall’alto, capaci di ragionare unicamente attraverso violenza e scontro, ingannando e uccidendo continuamente i compagni pur di perseguire i propri scopi (i continui salti di potere e i colpi di stato che la parte geopolitica dell’opera costruisce servono proprio a rappresentare questo).
La reclusione del popolo eldiano, centinaia di anni di conflitti contro i giganti, la guerra fra stati e l’ulteriore offensiva del mondo verso l’isola Paradis sono un continuo che mostra un’umanità incapace di ragionare e imparare dai propri errori. Perfino nel finale dell’opera, quando ormai l’80% di essa è andata massacrata, l’uomo ritiene ancora la guerra l’unica modalità attraverso cui identificare la propria appartenenza.
Il circolo di violenza delineato da Isayama pare inscindibile. L’autore non risparmia nessuna delle parti in gioco, non giustifica mai la violenza per nessuno degli scopi che si prefiggono i personaggi.
L’unicità di L’Attacco dei Giganti sta anche nel coraggio di trasformare tutti i personaggi protagonisti, gli eroi della prima parte dell’opera, in persone discutibili, esattamente come quelle che combattono, perché cadono negli stessi errori. Una scelta, questa, assolutamente impensabile in qualsiasi altro prodotto shonen o mainstream che l’industria giapponese ha prodotto negli ultimi dieci/quindici anni.
Tutti i punti di vista dei personaggi sono fallaci, anche empatizzando con i personaggi da ambo i lati sappiamo benissimo come spettatori del torto in cui stanno. Tra i tanti esempi che si potrebbero fare a riguardo è interessante il caso di Gabi, per diversi motivi.
Innanzitutto tramite il su personaggio, ma non è chiaramente l‘unico, Isayama ci mostra come la follia e la propaganda dei governi trasformi anche i bambini, i personaggi più puri, in automi assassini e dalla morale insensata.
La fallacia del punto di vista di Gabi appare evidente in pochi capitoli/puntate: se alla sua prima apparizione viene mostrata con felicità mentre ammazza il nemico, appare nel prossimo sviluppo della storia furiosa della malvagità dell’Armata Ricognitiva che attacca Marley uccidendo alcuni soldati che cercavano di metterla in salvo.
Isayama è intelligente nel giocare continuamente sul filo dell’ambiguità, sottolineando da una parte il dramma e le ingiustizie a cui i personaggi sono costantemente sottoposti ( e di cui avrebbero motivo di lamentarsi) e dall’altra il fatto che si macchino loro stessi degli stessi identici crimini.
Si crea un pericoloso e paradossale ideale in tutti i personaggi secondo cui la violenza è giustificata se utilizzata da se stessi e terrificante invece quando è subita. La foga e la follia di Gabi sono sotto questo aspetto una dimostrazione evidente del problema.
Fin dove si spinge la differenza tra difesa legittima ed eccesso di violenza? Questa è una domanda ancora attuale, di difficile soluzione, che anima fazioni opposte anche nelle guerre che tutt’ora attanagliano nel nostro periodo storico.
La violenza è il destino a cui non sfuggono nemmeno i personaggi più buoni della storia, e la cosa ancora peggiore è che questi con il passare del tempo tendono sempre più a normalizzarla, renderla un’azione che non si può evitare per arrivare infine a non provare quasi più rimorso ad applicarla.
Perfino Armin arriva a uccidere bambini e donne senza troppe preoccupazioni, una cosa impensabile se pensiamo alla sua caratterizzazione, i suoi ideali e le sue azioni fino a quel momento.
Il rapporto tra bene e male si fa sempre più confuso in ogni personaggio, come si può perseguire un bene comune attraverso il male, come può una persona buona a compiere azioni cosi maligne?