Il finale di American Psycho è molto complesso e metaforico: per capirlo bisogna andare oltre quello che il film sembra voler comunicare e ragionare sulla struttura narrativa
La storia di Patrick Bateman (Christian Bale) in American Psycho non è solo una storia di inusitata violenza scaturita tra gli eccessi, il lusso e l’edonismo della vita nella cultura yuppie negli anni ’80. Il personaggio, che lo stesso Bret Easton Ellis afferma essere emerso dal proprio stile di vita all’epoca, agisce in un mondo in cui le regole vengono smontate.
Per esempio, viene continuamente scambiato per qualcun altro; quando confessa i suoi omicidi a chicchessia nessuno sembra dargli ascolto; la violenza di cui è colpevole non sembra avere conseguenze, neanche quando egli viene direttamente indagato per le uccisioni; e tutto si riduce a una pura gara di formalità, di possesso, di prestigio che sotto la superficie non lascia nulla.
Ecco perché Bateman ci tiene tanto alla cura del suo fisico, a dare mostra della propria cultura musicale (in realtà piuttosto superficiale, visto che si sofferma solo su artisti pop commerciali), a fare attenzione ossessivamente agli abiti che porta confrontandoli con quelli degli altri, e così via. Lui stesso ammette, candidamente, che sotto l’apparenza di sé non esiste nulla: c’è il vuoto, non un essere umano.
Il punto è che questo essere vuoto cerca disperatamente una definizione, e le sue azioni mirano alla ricerca di questo: qualcosa che lo renda “speciale”, significativo, memorabile in un mondo nel quale, come possiamo vedere, tutti sono intercambiabili e niente ha davvero valore. Ma questa soddisfazione, fino alla fine, non gli è concessa.
Quando Bateman confessa al suo avvocato l’omicidio di Paul Allen (Jared Leto), con le parole più chiare e cristalline possibili, costui afferma a chiare lettere che non può essere successo, perché egli ha cenato con Paul Allen a Londra pochi giorni addietro. Allen quindi non è morto, nonostante noi lo abbiamo visto chiaramente ucciso da Bateman.
Ma lo abbiamo visto? No, la scena è censurata, vediamo solo il vago profilo di un cadavere. Questo perché la regista, Mary Harron, gioca sulla percezione nel film, sulla differenza tra ciò che si vede, ciò che sappiamo e ciò che è reale. Non possiamo in primis essere sicuri che lo stesso Bateman non abbia vissuto tutto solo nella sua testa.
Ma si va oltre. Il personaggio subisce la peggiore sconfitta possibile: in quanto attore in una narrazione e mancando di andare incontro a una reazione o a una punizione per i suoi atti egli non può realizzare alcuna catarsi, ossia alcun arco di trasformazione. La sua esistenza è quindi inutile al 100%: le sue azioni non hanno e non hanno mai avuto alcun senso.
Ecco quindi il significato del monologo finale in American Psycho: “Non ci sono più barriere da attraversare. Tutto ciò che ho in comune con l’incontrollabile e la follia, la perversione e la cattiveria, tutto il male che ho causato e la mia totale indifferenza verso di esso, ormai li ho superati. Il mio dolore è costante e acuto, e spero che per nessuno ci sia un mondo migliore”.
“In realtà, voglio solo che il mio dolore sia inflitto anche agli altri. Voglio che non si salvi nessuno. Ma anche dopo averlo ammesso, non c’è catarsi. La mia punizione continua a evitarmi, e non ho imparato niente di nuovo su me stesso. Nessuna nuova conoscenza si può estrarre dal mio racconto. Questa confessione non significa niente“.