Quel poco di buono che era emerso nelle prime stagioni s’è perso in una scrittura inefficiente, affidata ad autori della vecchissima scuola Simpson come Bill Odenkirk e Josh Weinstein. E i pochi “fan” della serie si aggrappano in genere sempre a quella solita battuta sulla ricchezza della chiesa, nella prima stagione.
C’è poi il problema classico di Netflix: le nuove stagioni vengono buttate fuori d’un fiato e bingiate, e non c’è modo di approfondire, conoscere e apprezzare i personaggi. La trama orizzontale, diversamente da quella verticale di Simpson e Futurama, non permette di creare schemi e gag ricorrenti che costruiscano un prodotto funzionante e incisivo.
Bizzarramente nell’ultima stagione c’è persino una comparsa che lo nota, chiedendo come ci si aspetta che qualcuno si ricordi cos’è successo a distanza di un anno. E viene messo a tacere con una freccia infuocata. Un po’ come se gli showrunner dicessero agli spettatori: “Non ce ne frega niente, affari vostri”.
In conclusione, Disincanto è praticamente inutile. Non è divertente, non è intelligente (se non, forse, per i bambini), non è arguta, non è sottile, non dice niente sul mondo, non appassiona, non coinvolge. Sembra davvero impossibile che dietro ci sia il nome di Matt Groening ma d’altra parte va accettata l’idea che il suo tipo di comedy, che funzionava trenta o vent’anni fa, ormai non funziona più.