Greta Gerwig ha pensato a Barbie come un vero e proprio road movie. La biondissima protagonista deve fare un viaggio per ritrovare sé stessa, conoscere un mondo a lei distante, mettersi in discussione. E per farlo incontra nell’ordine una società maschilista e tossica, un grattacielo pieno di uomini che parlano di cosa piace alle donne e infine la sua salvatrice, una America Ferrera che riprende i suoi precedenti personaggi di Ugly Betty e Superstore per farne poi un unicum.
In poco tempo, Barbie capisce qual è il suo posto nel mondo, cosa va e cosa non va. Ken invece dall’altro fraintende, portando con sé un virus difficile da estirpare e contagiando l’intera popolazione di altri suoi simili. In altre parole, se da un lato Barbie acquisisce piena percezione d sé stessa, dall’altro Ken prende la strada sbagliata, compiendo di fatto una doppia formazione, come il road movie impone.
La prima, quella appena menzionata. La seconda, quella che permetterà lui di comprendere come di fatto il patriarcato da lui tanto amato è dannoso anche per l’uomo stesso. Dopo aver infatti contagiato Barbieland, Ken si trova costretto, insieme agli altri, a mantenere uno status quo ben preciso, fatto di mansplaning e manipolazioni costanti. In sostanza, Ken diventa vittima di sé stesso.
Nello specifico, il Ken di Ryan Gosling si propone come un personaggio mite, ben educato, che vive a pieno ogni emozione e senza mai vergognarsene. Ken ha solo bisogno di attenzioni, vive esclusivamente per quello perché per quello è stato creato. Dopo la rivoluzione maschilista di Barbieland però, Ken pensa di aver trovato finalmente un posto nel mondo. Un mondo che però lo porta ad avere altre costrizioni che lo divorano di volta in volta.
Lotta dopo lotta (a colpi di musical, in una delle scene più belle e divertenti del film), ecco che il viaggio ideale di Ken inizia a prendere forma e a trovare una sua conclusione: che il patriarcato, che la società così strutturata, è dannosa anche per gli uomini stessi. Chiaramente, tutti arrivano a questa conclusione solo quando si trovano con le spalle al muro, consci del fatto che non c’è altra via che smettere di voler costruire gerarchie sociali, in favore di vera uguaglianza.
Su un altro piano, sovviene però una domanda al nostro amabile Ken: cosa farne della sua fragilità? La risposta si trova nel geniale slogan presente sulla sua felpa, quel “I’m Kenough” intraducibile in italiano se non con un vago “io sono abbastanza”. Essere abbastanza per sé stessi, lasciare la libertà altrui senza doversi sentire oppresso e costretto da un sistema che favorisce la predominanza ma che al tempo stesso ti impone dei canoni specifici.
Avere il potere significa essere il potere. E se spogliati di tale onorificenza, ancor più se ceduta ad una donna, subentra l’incubo di una castrazione freudiana contemporanea. Barbie ci spiega dunque come sia necessario andare oltre questo concetto per poter vivere senza un fastidioso alone tossico che ci circonda. Da qui, il compromesso finale ben accettato che riporta tutto all’ordine, regalando un posto nel mondo anche a chi è nato come un mero accessorio.
In conclusione, è proprio Ken il personaggio che di fatto giova dell’essenza del road movie, in un vero gioco dialettico dove si scontra con la sua antitesi per poi sublimare in qualcosa di migliore. E anche (solo e soprattutto) grazie a Barbie che l’ha accompagnato in questo viaggio subendo anche inutilmente la tossicità dilagante e isterica del machismo, segnalando ancora una volta che il patriarcato nuoce chiunque senza far sconti.
Che ne pensate? Avete già vistpo Barbie?
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