Succession: la spiegazione del finale intricato di una serie perfetta

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Vittoria che, imprevedibilmente, va proprio all’incapace (e perciò manovrabile) Tom, scelto da Matsson come nuovo CEO a discapito della ex-moglie. La quale però, tra l’altro incinta di lui, evidentemente fa due calcoli e sul finale accetta di tornare insieme a Tom. Se Shiv non può essere CEO, almeno potrà essere la moglie del CEO.

Roman cede alla sua fragilità, dopo un crollo definitivo durante il funerale del padre Logan, morto a inizio stagione. Chiaramente si sente inferiore rispetto ai fratelli e non sa come dimostrare di valere qualcosa a sua volta. Forse non vuole essere davvero CEO, ma nella crisi che precede l’ultima decisiva votazione se lo chiede, disperato di fronte a Kendall: “Perché non posso essere io?”

E, Kendall. Un personaggio ambiguo, controverso, a tratti vittima a tratti carnefice; il degno figlio di suo padre e forse, in effetti, l’unico davvero degno di ereditarne il trono. Ma il suo sogno va in frantumi a un passo dalla vittoria e nel momento in cui lo vede crollare davanti ai suoi occhi (quando Shiv decide di votare a favore dell’acquisizione, cambiando idea all’ultimo) ce ne rendiamo conto appieno.

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Kendall se la racconta, ma è più egocentrico e megalomane di tutti gli altri e questo proprio perché, non paradossalmente, è più capace di loro. Ma non arriva a ciò a cui aspira: lo vediamo camminare sconsolato, con l’ex-guardia del corpo del padre (che ora lavora per lui) che lo segue a distanza, e fermarsi al tramonto a fissare il vuoto.

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Per gli altri non va molto meglio: Connor e la moglie Willa dovrebbero avere un posto privilegiato come diplomatici all’estero per l’amministrazione Mencken (al quale Connor, candidato presidente a sua volta, aveva ceduto un patetico 1%), ma si parla vagamente di un “riconteggio” in uno stato e viene fatto capire che la vittoria del nuovo POTUS potrebbe non essere così definitiva.

E Greg? Un tocco particolarmente raffinato: il cugino ha giocato male e con malcelata ambizione le sue mosse, tradendo Tom (che, seppur odioso, l’aveva sempre preso sotto alla sua ala) e trovandosi additato a Giuda. Ma Tom, magnanimo, gli dà del “pezzo di merda” ma decide di tenerlo con sé, un po’ come schiavetto, applicandogli un bollino nero sulla fronte per indicarlo come sua proprietà.

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Succession finisce quindi “male”? C’è da rifletterci: è vero che nessuno ha avuto quello che voleva ed è vero che a fronte di un mondo in evoluzione, come Roman stesso ricorda, loro sono “niente”. Ma è anche vero che i fratelli così come gli altri personaggi non finiranno certo in mezzo alla strada: tutti presumibilmente continueranno a percepire stipendi con diversi succosi zeri.

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Non c’è quindi sconfitta reale per loro, se non sul piano personale: il gioco non cambia davvero, le regole rimangono le stesse. L’elezione di Mencken non scatena l’apocalisse della guerra tra etnie, come si paventava, e lo stesso Matsson sembra dopotutto più o meno disponibile a collaborare con lui pur essendo suo detrattore. Finché c’è profumo di soldi, si può fare tutto e si demolisce solo per poi ricostruire.

In definitiva, da Succession emerge un quadro sul capitalismo moderno e sulla società americana (e occidentale) sconsolato e provocatorio, che non lascia spiragli né speranze di un miglioramento o di un cambiamento. I fratelli Roy sono artefici e vittime al tempo stesso di questo sistema; che, più grande di loro, li schiaccia per proseguire oltre la sua opera distruttiva, economica e umana, senza posa.

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