Regina Cleopatra: Recensione della docu-serie Netflix che si fa beffe della Storia (ma anche del Cinema)
Dal 10 Maggio su Netflix i 4 episodi di una docu-serie che ha dato scandalo già a partire dal Trailer: Regina Cleopatra, prima stagione della serie prodotta da Jada Pinkett-Smith. La nostra Recensione.
Preceduta da infuocate polemiche e perfino una denuncia, è ora disponibile su Netflix la docu-serie in 4 episodi Regina Cleopatra, prima stagione della serie prodotta da Jada Pinkett Smith e dedicata alle più grandi Regine africane. E non senza una certa sorpresa, l’opera presenta ben altri problemi, ben oltre le accuse legate alla cancel culture e il revisionismo storico.
Forzare l’immagine, l’aspetto, l’etnia e il temperamento della mitica Regina Cleopatra, affidata all’attrice afro-britannica Adele James, ha fatto infuriare molte personalità di spicco. Già dal lancio del trailer, infatti, l’avvocato egiziano Mahmoud al-Semary ha intentato causa contro Netflix e richiesto formalmente al Pubblico Ministero la chiusura del network nel suo paese.
Anche a livello internazionale, Netflix ha dovuto arginare i danni e compiere rapidamente una scelta del tutto inedita, chiudere i commenti degli utenti sotto il trailer incriminato. Ed è solo l’inizio di una diatriba che si consuma da mesi e potrete vedere riassunta in modo esemplare da uno scontro feroce, avvenuto in diretta nel corso del celebre Talk Show inglesePiers Morgan Uncensored.
Ma prima di addentrarci e analizzare queste due posizioni diametralmente opposte, irriducibili e soprattutto specchio di una frattura ampia e profonda, forse la più profonda del mondo occidentale, la nostra società e il nostro tempo, vogliamo anche entrare nel merito, ovvero analizzare nello specifico la mini-serie dal nostro punto di vista, quello del mero linguaggio audiovisivo.
La mini serie ripercorre la breve e straordinaria vita di Cleopatra, dal 69 al 30 A.C., dall’ascesa al trono a soli 17 anni fino alla grande passione con Giulio Cesare, quindi quella con Marco Antonio, nemico di Ottaviano Augusto, terminata con il suicidio dell’ultima Regina d’Egitto, pronta a morire piuttosto che ammettere la resa e sottomettersi all’Impero romano.
Si tratta naturalmente di una parabola leggendaria, sospesa tra Storia e Mito, pronta a ispirare il Cinema e il Teatro occidentali fin dalla notte dei tempi. La fondamentale premessa è infatti che rispetto alla Regina Cleopatranon esistono fonti storiche a lei contemporanee, mentre la sua iconica figura arriva all’Età Moderna e Contemporanea solo attraverso fonti letterarie successive.
Cleopatra. Dalla Storia al Mito (passando per Cinecittà e Hollywood)
Plutarco è il punto di riferimento nella cultura ellenistica e romana per quanto riguarda la figura di Cleopatra. Ma è William Shakespeare a trasfigurare l’ultima Regina d’Egitto nell’emblema dell’eroina tragica moderna, protagonista di Antonio e Cleopatra, dramma storico attribuito al Bardo e datato tra il 1607 e il 1608, stampato in folio per la prima volta nel 1623.
La tragedia shakespeariana ci porta direttamente alla Hollywood dell’Età dell’oro, notoriamente affamata di peplum e colossal ispirati alla Storia greco-romana. Non tutti sanno che fu proprio Cinecittà , Cabiria di Giovanni Pastrone e il leggendario ciclo cinematografico legato al personaggio di Maciste (1914–1964), l’ispirazione e il punto di riferimento tecnico-artistico dei colossal hollywoodiani.
Oggi è evidente che la mini serie Regina Cleopatra pretenda di essere la risposta politica a quel cult movie, accusato di whitewashing, ovvero di aver distorto l’immagine della Regina egiziana nel volto di quella magnifica ragazza inglese, Liz Taylor, “la diva dagli occhi viola“. La risposta a una lunga schiera Cleopatre bianche, disseminate nella Storia da Sarah Bernard a Vivienne Leigh, da Sophia Loren a Monica Bellucci.
Ma Adele James e soprattutto la produzione Netflix Regina Cleopatra saranno stati davvero all’altezza delle loro stesse ambizioni? La risposta purtroppo è no. E il precedente non solo è brutto, ma forse è perfino pericoloso.
Regina Cleopatra: Recensione della docu-serie Netflix
Per compiere l’impresa, ovvero contrastare una miriade di Cleopatre bianche, la produttrice Jada Pinkett Smith e la regista Tina Gahavari avrebbero effettivamente potuto puntare su una visione artistica ardita, sfrontata come l’idea di mostrare per la prima volta Cleopatra, erede della dinastia tolemaica e quindi di origini greche e macedoni, con un volto afro e mixed-race.
Piuttosto, con nostra assoluta sorpresa, ci troveremo invece di fronte alla classica docu-fiction equamente divisa tra interviste frontali agli studiosi e ricostruzioni filmiche, girate essenzialmente come una Soap Opera del primo pomeriggio. L’idea più vecchia, scialba, economica e superata di documentario diventa così la struttura narrativa scelta per la mini serie Netflix.
Tutto il clamore si esaurisce solo nello scontro tra whitewashing e blackwashing, mentre il prodotto audiovisivo non può che essere liquidato come un’opera televisiva insipida, sciatta, melodrammatica, quasi ridicola per quanto somiglia a un vecchio peplum, con la sola inversione del colore della pelle degli attori, prima forzatamente tutti “bianchi, etero e cisgender“.
Ma altrettanto forzato è il casting della serie, la trama e l’intreccio, il tono da tifoseria calcistica delle interviste agli esperti, le invenzioni storiche che dall’ipotesi passano a una verità quasi assoluta, per non parlare del linguaggio, dove si utilizza ad esempio il paragone fra i Tolomei e Game of Thrones come si parlasse seriamente di analisi e fatti comprovati.
Tra gli studiosi e gli egittologi interpellati per la mini serie prevalgono così le donne. Ma il risultato non ha nulla di femminista, anzi non si rivela altro che un boomerang, così come il clamore suscitato dalla questione razziale e la ulteriore forzatura operata rispetto al temperamento e l’indole della Regina, ex eroina tragica e romantica, oggi declinata in chiave decisamente più Female Power.
Il teorico della Cancel Culture replica che la nuova Cleopatra non è più falsa di Elizabeth Taylor. Ma forse è questa l’unica, debole argomentazione a favore della mini serie Netflix, che rispetto alle intenzioni rischia di scatenare solo un effetto paradosso, controproducente per la propria stessa causa, che si parli di razzismo o dell’attitudine maschilista dell’industria cinematografica.
Il risultato è davvero un brutta, brutta figura per Netflix e Jada Pinkett-Smith. E se la moglie di Will Smith voleva riscattare la propria immagine dopo lo scandalo dello schiaffo a Chris Rock e l’infinita serie di pettegolezzi seguita alla Notte degli Oscar 2022, potrebbe aver solo prodotto un brutto precedente, dove le categorie discriminate non fanno che replicare gli stessi schemi del passato, con la stessa superficialità e prepotenza dei loro detrattori.