Il nuovo blockbuster melanconico di Lana Del Rey: il suo album del 2023 riporta visioni distorte di un passato corrotto in una tracklist dai toni languidi e sconsolati
Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd: questo il titolo del nuovo album di Lana Del Rey. Una domanda che è un’affermazione e che evoca, come in Chemtrails Over the Country Club, uno scontro critico tra antico e moderno e uno sguardo sconsolato, immancabilmente, e desolante su un mondo in cambiamento che sembra in rovina.
Un’ora e un quarto di nuova musica per l’instancabile cantante americana, che non perde mai l’ispirazione nella sua forza liricia né la capacità di far scivolare la sua voce incupita e anelante al tempo stesso in mezzo a suoni che sanno di strade abbandonate, ville deserte e spenta gentrificazione.
La forza dell’album sta nella sua struttura frammentaria, fatta di sketch e scenette che evocano disordinatamente immagini da after party, quando tutti gli invitati sono andati via e rimangono solo pochi avvinazzati a ballare tra i palloncini scoppiati. Decadenza è il termine giusto per descrivere questa impressione generale.
Non esattamente un tipo di immagine inedita nella discografia di Lana, ma qui in qualche modo più d’impatto perché velata non tanto di tristezza quanto di mistero. Ecco perché il canto sbiadito e languido della cantante sembra venire dal passato, da un film in bianco e nero rovinato di settanta o ottanta anni fa.
Quello che Lana fa quindi è rinchiudersi sempre più in una bolla anacronistica di stile e sensualità che appare come sempre più astratta e distaccata dalla realtà musicale contemporanea: non è pop, non è dark, non è indie e non è, come ai tempi di Born to Die dieci anni fa, non è trip hop. Ora è solo una specie di sogno infinito fatto di ombre, sfumature e lamenti sommessi.
Immagini corroborate da una quasi totale assenza di basi ritmiche decise e da una predominanza, in compenso, di sottili orchestrazioni e parti di piano leggere e quasi accennate a tratti. Caratteristiche che mirano a rendere queste canzoni universali, adatte e ri-adattabili a qualunque epoca e tempo.
Un risultato raggiunto grazie al contributo dell’ormai immancabile Jack Antonoff, produttore onnipresente in tutte le più importanti opere pop di alto livello e qui anche co-autore di diverse tracce e presente in featuring con la sua band, i Bleachers. E, parlando di collaborazioni, spicca anche quella con Father John Misty in Let the Light in.
C’è spazio comunque anche per suoni più moderni, come nella sperimentale e intrigante A&W (la canzone migliore dell’album) e in Fishtail, che chiama in causa anche un autotune. Piccoli momenti nei quali Lana sembra quasi trasformarsi nella giovane collega ed emula semi-inconsapevole, Billie Eilish.
Tendenza confermata anche da Peppers (sì, è un riferimento alla band), brano nel quale con Tommy Genesis si accolgono addirittura accenti marcatamente rap in un momento inaspettato e completamente in contrasto con il resto dell’album, posto non a caso quasi in chiusura. Solo uno di tanti brani che funzionano davvero, tra i quali figurano anche Candy Necklace e la title track.
In definitiva abbiamo un altro lavoro della Del Rey davvero ambizioso, per non dire magniloquente, che in qualche modo riesce a riprendere uno stile caratteristico della performer e da lei sposato da ormai più di una decade e trarci ancora qualcosa di nuovo, di convincente e di seducente. Un altro album riuscito, e un altro passo importante nella crescita della leggenda di Lana Del Rey.