Sicuramente ve ne sarete accorti: nella musica contemporanea ci sono molti più featuring rispetto al passato. Perché? Cerchiamo di dare una spiegazione
La parola featuring è ormai universalmente diffusa per indicare una collaborazione nell’industria della musica, a volte tra cantanti o artisti famosi, a volte meno. Un mezzo promozionale, che può servire per cercare di rendere più celebre o dare visibilità ad un artista emergente o, viceversa, dare modo a musicisti affermati di restare in scena più a lungo.
Inutile dire che il featuring esiste praticamente da che esiste la musica popolare: a cominciare dal jazz, dove un bandleader assemblava i complessi scegliendo di volta in volta i musicisti più fidati e capaci e dove capitava che un artista più dirompente potesse essere il semplice feat. di qualcuno altro solo in quanto membro della band composta per quella sessione di registrazione.
Con la nascita della musica popolare e della moderna industria discografica negli anni ’60 si iniziano a trovare i primi feat. leggendari, come quello di Frank Sinatra con la figlia Nancy in Somethin’ Stupid; oppure, spostandoci da noi, Iva Zanicchi con Claudio Villa nella canzone Non Pensare a Me, vincitrice di Sanremo 1967.
Nei decenni successivi il meccanismo si afferma sempre di più, passando per esempio per Under Pressure dei Queen feat. David Bowie, la canzone Easy Lover di Phil Collins con Philip Bailey, la celebre Ebony and Ivory cantata in coppia da Paul McCartney con Stevie Wonder e senza farsi mancare intese tra fratelli, come in Scream di Michael e Janet Jackson, del 1995.
Tantissimi sono i featuring rimasti nella storia, a volte esplicitati a volte meno: per esempio gli appassionati sanno bene che in My Guitar Gently Weeps dei Beatles l’assolo di chitarra è affidato ad Eric Clapton, ma la sua comparsa nel brano non è per esempio testimoniata nel link su Spotify corrispondente.
Il salto di qualità per quanto riguarda il featuring, però, arriva con l’affermazione di nuovi generi che non richiedono una specifica abilità tecnica con gli strumenti e si affidano al contrario ad abilità compositiva e tecnologica: hip-hop ed elettronica sono spesso musiche create da musicisti / non-musicisti, che debbono affidarsi spesso a vocalist o ad altri collaboratori per rendere il loro prodotto completo.
I rapper, per esempio, abbisognano di ritornelli affidati a cantanti veri e propri perché le loro canzoni siano adatte ad un ingresso in classifica e ad un consumo massificato; alcuni di essi, come Childish Gambino, possono sia cantare che rappare; altri, come Kanye West o Kendrick Lamar, non ne sono così capaci ed ecco la necessità per i featuring.
Per l’elettronica vale lo stesso: una buona base dance vale commercialmente molto di più se contiene un bel ritornello cantato o anche un’intera collaborazione con una voce forte; esempi facili sono Sugar di Robin Schulz con Francisco Yates, oppure la famosa Lean On dei Major Lazer con MØ.
Nelle ultime due o tre decadi, però, i featuring sono stati adottati sempre più non tanto per necessità quanto come strumento promozionale volto ad una promozione incrociata tra gli artisti, con alle spalle accordi tra le case discografiche oppure collaborazioni organizzate tra nomi del roster di una stessa casa.
E gli esperimenti possono andare in più direzioni, a volte anche “rischiose”: come il featuring di Ozzy Osbourne con Post Malone del 2020 che ha messo a confronto due fanbase distantissime anche a livello generazionale. Oppure, tornando un po’ indietro, il feat. di Christina Aguilera con Dave Navarro nel singolo Fighter (2003), che ha unito pop e rock in una maniera per l’era inaspettata e spettacolare.
In Italia, essendo il nostro mercato discografico più piccolo di quello inglese o americano, il feat. è ormai diventato norma tra tutti gli artisti che contino anche solo su un minimo successo e, soprattutto, che abbiano alle spalle le case discografiche più importanti. Prendete un album qualunque di un artista tra i 20 e 40 anni, specie nel panorama rap e pop, e vi troverete una miriade di featuring.
Ci sono casi eclatanti come quello di Thasup e della sorella Mara Sattei, nomi praticamente sinonimo di featuring per quanto riguarda la costruzione della loro stessa carriera. E produttori come Takagi & Ketra, che fanno affidamento praticamente solo su questo mezzo per le loro hit, trattandosi di due DJ non-vocalist.
Ovviamente questo non significa che cantanti e artisti non possano interpretare e distribuire musica solo col proprio nome: ma il featuring si sta rivelando uno strumento sempre più sicuro, specie in quest’era di iper-medialità, per attirare l’attenzione di fasce diverse di pubblico e portare i fan alla scoperta di nuove fette di mercato che altrimenti forse non avrebbero mai esplorato.
Cosa succederà, per esempio, quando i Cradle of Filth collaboreranno con Ed Sheeran? Forse i fan del giovane cantante si apriranno alla musica del gruppo metal per pura simpatia? O i navigati appassionati della band di Dani Filth saranno disposti, dopo collaborazioni come quella con i BMTH, a dare una possibilità al pop della star di Thinking Out Loud?
Comunque vada, nei featuring di certo c’è sempre da guadagnarci per tutti e non solo perché se scritta ed eseguita a più mani una canzone può suonare semplicemente migliore o più completa. Si tratta di fatto di unire interessi diversi e di creare le migliori forme di intrattenimento possibili, infallibili nelle composizioni di accoppiate o adunate di musicisti perfette.