Come ogni anno, anche questo 2022 ha prodotto moltissimi film di alta qualità. Giunti agli sgoccioli di dicembre è arrivato dunque il momento di tirare le somme e di stilare la classifica dei prodotti che maggiormente ci hanno impressionato in questi ultimi 12 mesi. È bene ricordare che per formare questa lista di nomi abbiamo scelto tra i film che sono stati rilasciati in Italia durante il 2022. Dunque, sebbene alcune pellicole di valore altissimo siano arrivate nei cinema negli States, non hanno potuto essere considerate perchè la loro distribuzione nel Belpase è programmata per i primi mesi del 2023.
Inoltre vi ricordiamo sempre che queste classifiche sono frutto dell’esperienza e del gusto personale delle persone che vi scrivono. In questo caso specifico un’intera redazione che ha discusso animatamente per diverso tempo per trovare una lista di 10 film che andasse bene per tutti. Sentitevi dunque autorizzati a rivelarci quali opere avreste messo o quali lasciato fuori, tenendo sempre fermo questi criteri di base.
Fatte questa rapida, ma doverosa premessa, iniziamo.
10) Triangle of Sadness, Ruben Östlund
A cura di Alessio Corsaro
Se The Square ha decretato l’ingresso di Ruben Östlund nel panorama dei grandi registi internazionali, Triangle of Sadness rappresenta una solida conferma per il talentuoso cineasta svedese. Il film vincitore della Palma d’oro a Cannes ci riporta sul terreno della black comedy e del politically correct, regalandoci un inquietante affresco sulla ricca, fetida borghesia occidentale. In Triangle of Sadness a far da protagonista è il dio Denaro. Il valore concreto e simbolico del denaro permea le vicende lungo l’intero arco narrativo, assurgendo alla funzione di vero e proprio motore immobile attorno al quale ruota ogni cosa. Il Denaro costituisce il privilegiato argomento di conversazione, un vero e proprio mostro in grado di fagocitare ogni tema che non induca a discutere di se stesso.
Il lusso attira a sé porzioni di film assolutamente significative, generando delle vere e proprie nevrosi, specialmente tra i due protagonisti, uniti esclusivamente dalla ricerca di follower che possano produrre benessere economico. Ritratta nella sua viltà più becera, la ricchezza simboleggia il fine ultimo verso cui ognuno tende obbligatoriamente ed è per questo che definisce in maniera cristallina i tipi umani ritratti dalla pellicola. In un contesto del genere tutto mira alla soddisfazione dei più disparati desideri e delle perversioni dei ricchi privilegiati, in nome di un’animalesca frenesia per il denaro. Pur di provare una qualsiasi forma di emozione, gli ospiti dello yacht ricercano qualsiasi escamotage che possa far perdere loro lo status di intoccabili e che possa farli sentire vulnerabili.
La crociera di lusso dipinta da Östlund, infatti, somiglia a una patina dorata dietro cui si celano tristezza e un vuoto esistenziale profondo, strettamente connesso all’incapacità di conferire importanza a qualcosa che non abbia un intrinseco valore economico. Il massimo trionfo del lusso, tuttavia, si trasforma presto in uno psicodramma collettivo da cui nessuno dei ricchi ospiti può sfuggire. I frenetici movimenti della macchina da presa sembrano trasportarci a bordo della nave, teatro di un malessere sempre più montante che cozza violentemente con le cerimoniose presentazioni delle meravigliose portate culinarie. Gli opulenti protagonisti vengono messi completamente alla berlina, visti nella loro inconsistenza esistenziale che li rende corpi ridicoli in preda alla forza della natura.
Nonostante un ultimo capitolo abbastanza debole, anche la sezione conclusiva della storia ci lascia delle intuizioni interessanti. Östlund prosegue nell’opera di progressiva destrutturazione dei ricchi capitalisti, i quali si troveranno a confrontarsi con una situazione assolutamente inedita di cui appariranno completamente in balìa. Ciò a cui diamo valore economico è totalmente arbitrario, frutto di una mera costruzione occidentale che Triangle of Sadness, pur con qualche passaggio claudicante, riesce a polverizzare in maniera soddisfacente.
9) Bones and All, Luca Guadagnino
A cura di Alessio Corsaro
Bones and All è il racconto di un fragoroso scontro tra Amore e Morte, Eros e Thànatos. Luca Guadagnino confeziona un coming-of-age movie, ambientato negli Usa degli anni ’80, che racconta il sottomondo di due cannibali, Lee e Maren. Marchiati a fuoco dall’eredità maledetta tramandata dai propri genitori, i due giovani intraprendono un viaggio alla ricerca di se stessi, nel tentativo di comprendere quale possa essere il proprio posto in un Mondo dell’amore che non vuole mostri.
Bones and All rappresenta una metafora cruda e poetica delle realtà nascoste e abbandonate, di tutti gli esclusi da una società che non può concepire nient’altro al di fuori di sé. All’interno di una vicenda che alterna armoniosamente sequenze da commedia romantica, road movie e thriller con delicate tinte horror, Guadagnino gioca abilmente sull’incapacità occidentale di relativizzare ed accettare l’esistenza di esseri umani che infrangono tabù contemporanei come quello del cannibalismo.
L’erotica brama di carni umane nutrita da Lee e Maren non è dovuta ad un piacere sadico e perverso, quanto ad una violenta pulsione risalente alla tenera infanzia. Il cannibalismo dei due giovani non si risolve in un pasto famelico, ma viene ritratto come un dolceabbandono che diventa un’intima forma di connessione umana fra due anime perse. Il regista non indugia sul particolare sanguinolento, anzi esplora le scene più sentimentali con grande eleganza, come a non voler turbare l’intimità dei due giovani.
Bones and All è un film coraggioso, in grado di produrre nello spettatore un’insanabile sospensione del giudizio. Nonostante la vicenda corra su un sottilissimo filo teso tra il contemplabile e l’inaccettabile, l’elegante maestria di Guadagnino fa sì che la vicenda non si ammanti di retorica e al tempo stesso non sfrutti la violenza come intrattenimento fine a se stesso. La dirompente sequenza finale sublima l’essenza stessa del film, regalandoci un amore radicale, fino all’osso.
8) X: A Sexy Horror Story, Ti West
A cura di Lorenzo Pietroletti
Forma e Sostanza, come recitava un famoso gruppo italiano. Questo è X-A Sexy Horror Story. Un film horror violento e sensuale, perfetto per gli appassionati, ma anche un trattato su ciò che era l’horror ieri e ciò che è l’horror oggi. Siamo nel torrido sud degli USA, un gruppo sgangherato vuole una fetta di torta della Golden Age of Porn. Quindi decide di dare un tocco di “vero cinema”, affittando una depandance nel mezzo del Texas. I proprietari della casetta però si riveleranno degli squilibrati.
Una sontuosa Mia Goth è protagonista assoluta di questo interesante film firmato Ti West. Protagonista nei panni di Maxine, “antagonista” in quelli truccatissimi dell’anziana Pearl. Pulsioni di vita e di morte dominano le sequenze, brillantemente gestite dalla regia di West che omaggia il cinema del passato ma anche quello del presente, creando interessanti mescolanze a riprova di un’evoluzione del genere in questione. Emblematico in tal senso l’incipit, che dal 4:3, formato tipico dei B-movie di allora, passa al 16:9 con un semplice zoom, rivelando il trucco visivo sorretto semplicemente da elementi di scenografia.
E ancora, la meravigliosa sequenza ripresa dall’alto a camera fissa in cui un coccodrillo famelico insegue Maxine. Oltre alla chiara citazione Hooperiana, regista dal quale West ha attinto parecchio per X- A Sexy Horror Story, assistiamo a quella che è ormai un vera e propria conversione dell’horror. Non più cinema di genere low budget fine a se stesso, ma anche cinema di un certo spessore tecnico, pur avendo le medesime tematiche. Al netto di ogni giudizio etico o morale a riguardo, che rientra nella sfera soggettiva dello spettatore, X – A Sexy Horror Story resta un esperimento perfettamente riuscito sotto ogni punto di vista. E non vediamo l’ora di assistere agli altri due capitoli dedicati a questa folle storia. Qui trovate la nostra recensione.
7) The Northman, Robert Eggers
A cura di Marco Barucci
Il terzo lavoro che funge da conferma per uno dei registi rivelazione degli ultimi anni. Dopo l’esordio di The VVitch e il molto apprezzato The Lighthouse,Robert Eggers ci porta in un epico viaggio nella mitologia nordica. Tra leggenda e sogno, tra fantasy e accurata ricostruzione storica, The Northman narra l’epopea di Amleth, erede al trono di uno dei regni norvegesi, che in seguito a un tradimento, si ritrova orfano e senza più l’identità nobiliare. Anni dopo, diventato un guerriero vichingo, andrà in cerca della sua vendetta.
É curioso avvicinarsi a The Northman, con la consapevolezza che Eggers si rifà a una delle innumerevoli versioni del mito scandinavo di Amleto. Si lo stesso Amleto reso famoso da Sir William Shakespeare. La violenza, la ferocia e i bagni di sangue aiutano lo spettatore ad addentrarsi in una civiltà selvaggia e barbara, dove la guerra era un valore di primo piano. Il machismo, lo scontro e la vendetta condite con la forza bruta, vere e proprie virtù. Ma senza scordare le radici e un senso di attaccamento alle proprie discendenze che impone obblighi vendicativi per scongiurare il disonore in caso di mancata vendetta.
Sorprendente come Eggers riesca ancora una volta a prendersi gioco dello spettatore, calibrando realismo e magia. Allo stesso tempo sono ben rappresentate le usanze tribali e le ambientazioni ancestrali dei miti nordici arrivati fino a oggi come una sottocultura di costume che ha ancora un discreto seguito. Una storia di vendetta con risvolti di sotto trame capaci di disorientare il fruitore con dei colpi di scena inaspettati.
La pellicola vanta un cast di livello molto elevato. Il ruolo del protagonista è stato affidato ad Alexander Skarsgård, affiancato dagli iconici Ethan Hawke. I due attori feticcio di Eggers, Anya Taylor-Joy e Willem Dafoe e un’inaspettata quanto sublime Björk. I diversi usi della fotografia, distinti tra i fatti reali e le visioni del mito offrono l’esperienza sensoriale di vivere i due mondi in maniera ben distinta. Un’ opera sicuramente da vedere e rivedere per immergersi in modo diverso nelle ambientazioni nordiche rappresentate, prima dell’uscita di The Northman, da grandi capolavori come Il Signore degli Anelli o cinecomics come Thor.
6) Men, Alex Garland
A cura di Lorenzo Pietroletti
Terzo film firmato Alex Garland, terza grandissima opera a firma di uno degli sceneggiatori più bravi sulla piazza. Dopo Ex Machina e Annientamento, il fido scrittore di Danny Boyle batte la strada dell’horror conMen, un film quantomai divisivo e per questo da analizzare a fondo. Un horror profondamente allegorico, pregno di simbolismi pagani e sottotesti carichi di significato. Una storia che trova le sue radici in un passato che riflette il presente. In maniera analoga al Madre! di Aronofsky, Men è un grandissimo viaggio nella mente di Harper, una donna in fuga da un trauma che trova però solamente muri.
Muri alzati da una società patriarcale e misogina, che amplificano l’incubo e il senso di colpa della protagonista, una perfetta Jessie Buckely che incanta ancora una volta dopo Sto Pensando Di Finirla Qui. Un luogo di pace, immerso nella natura, si trasformerà in un vero e proprio incubo. A coadiuvare la Buckely, troviamo anche Rory Kinnear, con la sua interpretazione multipla di tutte quelle istituzioni che di fatto annientano Harper. Un prete, un poliziotto, un ragazzino, un giovane adulto.
Le mille sfaccettature di un dito puntato contro la donna. Le immagini raccontate da Garland costruiscono un costante senso di oppressione ed angoscia, lavorando sull’antitesi, fino alla sublimazione finale. Il crescendo costante che caratterizza il film, porterà infatti lo spettatore ad un senso di profondo disgusto, empatizzando perfettamente con la protagonista. Questo terzo film firmato Alex Garland, oltre a confermare la bravura del regista, restituisce in ogni suo secondo un terrore diverso dai canoni ai quali siamo abituati. Un terrore sociale, che porterà lo spettatore a porsi inevitabilmente delle domande, alle quali non sarà mai facile trovare risposte, proprio perché potenzialmente ancora più orrorifiche delle domande stesse.
5) Everything Everywhere All at Once, Daniel Kwan e Daniel Scheinert
A cura di Andrea Campana
Tutto, ovunque, allo stesso tempo. Di certo il film A24 più ambizioso (se non il migliore) mai realizzato: un miracolo che porta insieme intersezioni di temi e significati nella durata classica di un lungometraggio, riuscendo a non essere moralista, a lavorare di sottigliezza, ad esplorare a fondo molteplici aspetti di ogni questione sollevata e anche, sì, a divertire. Tanto. Il miracolo viene realizzato dai due famosi Daniel, Kwan e Scheinhart, precedentemente noti per l’altrettanto coraggioso e “strano” Swiss Army Man, con Daniel Radcliffe e Paul Dano (2016). Qui si affidano alla bravissima e ormai leggendaria Michelle Yeoh, con Ke Huy Quan (il Data dei Goonies) come co-protagonista e con i Russo alla produzione.
Di cosa parla Everything Everywhere All at Once? Si potrebbe dire che parla d’immigrazione; che parla di famiglia; che parla del’’economia; o che si sposta su argomenti più intimi e complessi, come la mancata auto-realizzazione dell’individuo o la difficoltà che le persone oggigiorno affrontano nel capirsi l’un l’altra. Ma è più corretto dire che il film tratta tutti questi argomenti insieme, e… nessuno in particolare. La storia è incentrata su Evelyn, la proprietaria di una lavanderia che a partire da una semplice incomprensione con la figlia (fulcro vero della trama) si ritrova inaspettatamente in un viaggio allucinante tra una miriade di universi, uno più assurdo e più improbabile dell’altro.
E man mano che procediamo con la narrazione, che vaga in continuazione tra il drammatico e il comico, affrontiamo temi sempre più complessi riguardanti la casualità, il libero arbitrio e le conseguenze delle nostre scelte. Il film non si risparmia in nulla, giocando in ogni secondo con tutte le sue possibilità espressive. Lo fa inventando parodie come quella, gustosa e intelligente, di Racacoonie, ma anche esplorando un mondo nel quale i protagonisti sono semplicemente… sassi. E il miracolo prosegue giacché la storia è sempre, perfettamente chiara: non si ingarbuglia, non si confonde e non si perde in spiegoni, preferendo mostrare anziché argomentare e coinvolgendo lo spettatore in una marea di emozioni quasi insostenibile.
I due registi e il loro cast vagano tra i generi, toccando il comico, l’action, la sci-fi, il dramma, i film di arti marziali e chi più ne ha più ne metta, senza farsi mancare satire ma anche omaggi, citazioni e momenti di pura provocazione anche volutamente “volgari”. Tutto, manco a dirlo, si risolve in una enorme allegoria sull’esistenza stessa, e se avete visto il film sapete che dire questo non è esagerare. Everything Everywhere All at Once (qui la nostra recensione) riassume splendidamente in un cinema di altissima qualità tutte le potenzialità espressive di una storia come questa, dando libero sfogo all’immaginazione su grande schermo come non si vedeva davvero da anni. Un film che racconta tutto ciò che siamo, e tutto ciò che possiamo essere.
4) Pinocchio, Guillermo Del Toro
A cura di Matteo Furina
Questo primo esperimento di Guillermo Del Toro nel mondo dell’animazione è un assoluto prodigio. Un mix di bravura tecnica e stilistica nella realizzazione dell’opera in stop motion o del design del personaggi e sceneggiatura di una storia che si ispira solamente a quella originale di Carlo Collodi ma che poi si propaga in tutt’altra direzione. Il regista messicano non vuole infatti raccontarci per l’ennesuma volta una trama che già conosciamo, ma vuole usare una base ben radicata nella cultura pop per farci vedere il mondo con i suoi occhi e mandare un messaggio, forte e intenso.
Sebbene infatti il film parla in ogni caso di un burattino di legno che vuole diventare un bambino vero, le sue vicende si svolgono in un luogo e in un tempo molto particolare della storia: l’Italia Fascista. Come aveva fatto già in precedenza con Il Labirinto del Fauno, Del Toro utilizza gli occhi innocenti dei bambini per mandare un messaggi di pace, per criticare le discrminazioni di sorta e per attaccare il periodo dei grandi dittatori europei che così tanto odia.
Stilisticamente Pinocchio è perfetto. A partire da come lo stesso protagonista è stato visivamente concepito, passando per la meravigliosa e mozzafiato interpretazione della morte e della fata turchina visti come due spiriti fratelli più simili a Sfingi che a umani, per arrivare al lavoro pazzesco fatto dal cast. Del Toro si è infatti affidato a doppiatori di altissimo livello per dare vita ai suoi personaggi. Da Cristoph Waltz a Cate Blanchett passando per l’immancabile Ron Perlman. Tuttavia la prova migilore è sicuramente quella offerra da Ewan McGregor nei panni del Grillo Sebastian. L’attore britannico sfodera infatti una performance vocale eccezionale, sia quando deve dialogare sia quando è chiamato a cantare.
Si perchè questo film ha anche una componente musicale molto spiccata. Tuttavia le canzoni sono sempre contestualizzate in modo eccellente e non sono mai predominanti sulla narrazione. Questo rende dunque Pinocchio perfettamente sostenibile anche da chi mal sopporta i musical. Sicuramente il miglior film d’animazione dell’anno, e opera assolutamente immancabile in questa classifica.
3) The Fabelmans, Steven Spielberg
A cura di Marta Zoe Poretti
Il 28 Dicembre del 1895 i Fratelli Lumiere proiettano al Salon Indien du Grand Café in Boulevard des Capucines A Parigi “L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat”. Si tratta della prima proiezione cinematografica per un pubblico pagante, e leggenda vuole che l’apparizione delle immagini in movimento abbia destato nelle persone incanto, meraviglia, ma anche autentico, genuino terrore, tanto che qualcuno si sarebbe perfino istintivamente alzato, temendo che quel treno potesse effettivamente travolgerlo.Molti anni dopo, nel 1952, le immagini di un altro treno lanciato a folle velocità sulle rotaie erano destinate a segnare un’altra pietra miliare nella Storia del Cinema.
Fatalmente il titolo del film è proprio The Greatest Show on Earth, Il più grande spettacolo del mondo, ed è firmato dal maestro Cecil B. De Mille. Ma in fila, fuori dalla sala cinematografica, c’è un bambino destinato a scrivere una nuova pagina di Storia del Cinema, un futuro maestro che oggi con The Fabelmansrimette in scena il suo incontro fatale col Cinema, insieme alla sua infanzia e la bizzarra parabola della sua famiglia. Il bambino naturalmente è Steven Spielberg, qui tramutato in Sam Fabelman. In realtà non ha molta voglia di entrare.
Da un lato, sua madre gli spiega che i film sono come sogni, che diventano memorie destinate a restare con noi per sempre. Dall’altro, suo padre gli spiega il funzionamento del cinematografo, il fenomeno della “persistenza retinica”, che determina l’impressione del movimento continuo quando le immagini vengono proiettate a 24 fotogrammi al secondo. E tra questi due estremi, la fantasia della madre ribelle, pianista e artista dal carattere indomito, e la razionalità del padre ingegnere, attento studioso di ogni innovazione tecnologica, Steven Spielberg rivela sé stesso, l’origine della sua visione e del suo approccio al Cinema.
The Fabelmans non è semplicemente una lettera d’amore per l’arte cinematografica, tracciata da uno dei più influenti autori del nostro tempo. E non è banalmente la fiaba che racconta una famiglia perfetta, ma piuttosto il racconto tenero e struggente di uno strano scherzo del destino, che vedrà la Signora Fabelman e il migliore amico di suo marito, per tutti Zio Ben, innamorarsi perdutamente l’uno dell’altra. Spielberg mette così a nudo la sua infanzia e la sua adolescenza, dal dramma familiare al bullismo e la discriminazione subita come ebreo, mettendo sempre al centro quelle piccole cineprese amatoriali, la prima moviola, gli esperimenti per creare da assoluto autodidatta i primi effetti speciali: quei dispositivi che si rivelano i suoi più inseparabili, fedeli amici. Dopo il suo incredibile omaggio a West Side Story, Spielberg racconta così la sua personale avventura di vita, tra minuziosa ricostruzione storica e magia del Cinema, firmando uno dei migliori film della sua carriera: uno dei migliori titoli del 2022, da vedere tassativamente su grande schermo.
2) Crimes of The Future, David Cronenberg
A cura di Claudio Faccendi
Non sono molti i registi che possono vantare una carriera e una fama come quella di David Cronenberg. Ogni nuovo progetto del maestro è un vero e proprio evento, ogni suo film è materiale da scomporre fotogramma per fotogramma. In questo 2022 è uscito l’attesissimo Crimes of the Future con protagonisti un incredibile Viggo Mortensen e una splendida Léa Seydoux. I due attori infatti sono il cardine dell’intera vicenda, una coppia di artisti visionari che usano il corpo come mezzo di espressione. Tutto questo viene dipinto all’interno di un imprecisato futuro distopico dove gli esseri umani hanno perso il senso del dolore, dove non esistono più virus o infezioni e in cui, alcuni di loro, manifestano una rapida crescita di organi tumorali.
Saul Tenser (Viggo Mortensen) offre il proprio corpo, capace di generare nuovi organi tumorali a una velocità incredibile, alla sua socia Caprice (Léa Seydoux) per esibizioni live di chirurgia. Così come cambia la natura e la biologia umana anche il concetto di arte e di sessualità cambiano di pari passo. L’asportazione di organi, le incisioni e le mutilazioni divengono considerate erotiche, un piacere pari al sesso. All’interno di questo quadro esordirà un movimento evoluzionista, un gruppo considerato terrorista, che vuole lasciare che i nuovi organi e la chirurgia evolvano gli esseri umani rendendoli plasticofagi, capaci di mangiare plastica e rifiuti industriali.
Tramite un tessuto di storie che si intrecciano in un appassionato thriller, il maestro del body horror ricama una serie di messaggi di denuncia. L’arte come mezzo di protesta, di sensibilizzazione verso se stessi e l’ambiente che ci circonda. Un’umanità che ha perso il proprio equilibrio con la natura e con la tecnologia, lobby che superano lo strapotere degli Stati. Tramite le sue creazioni, le sue macchine orrorifiche e artefatte, David Cronenberg ci offre uno dei film più belli e intensi di questo 2022. Crimes of the Future non è solo tutto questo ma è anche la naturale evoluzione dell’arte del maestro che ne riprende gli stilemi e li eleva allo stato dell’arte.
1) Licorice Pizza, Paul Thomas Anderson
A cura di Emanuele Marcucci
Al primo posto della nostra classifica non poteva che trovarsi Licorice Pizza, ennesimo filmone targato Paul Thomas Anderson. Il film che più abbiamo atteso in questo 2022 dimostra di essere anche l’opera più intima del regista, che racconta una dimensione a lui molto vicina senza perdere la sua cifra stilistica. Lasciando alle spalle l’eleganza e la solennità de Il filo nascosto, PTA cambia nuovamente genere, girando un teen movie tutt’altro che convenzionale, impreziosito dal suo riconoscibilissimo tocco.
Basta un piano sequenza e ci troviamo catapultati nella California degli anni ’70, cornice in cui Anderson si muove sapientemente per mettere in scena il rapporto fra la venticinquenne Alana e Gary Valentine, intraprendente 15enne che non si arrende di fronte all’iniziale rifiuto della ragazza. Una storia in cui i protagonisti si scontrano, si avvicinano, si perdono per poi ritrovarsi, in tumulto caotico fatto di fughe e persistenza, un magma delicato, un affresco che dipinge l’impetuosa inconsapevolezza degli amori più acerbi.
Un film orchestrato alla perfezione sin dal casting, dove Alana Haim, cresciuta nella San Fernando Valley, dà corpo con naturalezza alla protagonista, ingenua eppure acuta, segnando uno degli esordi attoriali più rimarchevoli degli ultimi anni. Dall’altra parte, il volto e la fisicità di Cooper Hoffman, sono la perfetta incarnazione di Gary, logorroico e impacciato, ma capace di superare le proprie insicurezze grazie alla sua ferrea determinazione. Due talenti giovani e cristallini che non sfigurano di fronte alle memorabili interpretazioni dei più esperti comprimari, come Bradley Cooper o Sean Penn, qui nei panni di William Holden, affascinate parodia del divo tutto moto e testosterone.
Lo sguardo di PTA è tutto per i suoi protagonisti, sempre catturati in un moto che converge e diverge a seconda delle stagioni del loro rapporto. Un film vivace, dinamico e delicato, una danza che vibra su un’estetica anni ’70, accompagnata da una cornice musicale tanto permeante da dare l’illusione del musical. Licorice Pizza non è il film che ci aspettavamo da Paul Thomas Anderson, ma anche quello che siamo felici abbia girato, perché davvero non vediamo l’ora di rivederlo, lasciandoci andare a un altro giro di questo ballo spensierato.