Si fa ancora fatica a cogliere l’immensità dell’eredità, non solo musicale, che Jimi Hendrix ci ha lasciato. E per molti il dibattito è ancora aperto: è o non è stato il più importante chitarrista della storia?
Ancora oggi Jimi Hendrix è sinonimo di una cosa prima di tutte le altre: chitarra. La chitarra elettrica, per la precisione; la versione delle sei corde che inaspettatamente a metà del secolo scorso arriva a giocare un ruolo fondamentale in una gigantesca rivoluzione culturale, prima e specialmente come sineddoche di quel grande movimento musicale e artistico detto rock and roll.
La chitarra elettrica diviene, ben prima di Hendrix ma anche poi e soprattutto con lui, simbolo di ribellione, contro-cultura, cambiamento. Lui la tramuta in strumento di sessualità e passione ma anche, come quando suona l’inno ai caduti sul palco di Woodstock nel pieno apice della Guerra in Vietnam, strumento di pace e di ricerca di una nuova fratellanza.
Ed questo che forse Hendrix fa, più di molte altre cose, con le sue sei corde: unisce. Cerca di farlo in musica come il dottor Martin Luther King lo fa con i suoi discorsi, inneggiando all’avvento di un nuovo mondo aperto per lui dai suoni ma anche dai nuovi orizzonti rappresentati da una libertà inedita, mai vissuta prima, che gli anni ’60 portano con sé (“are you experienced?”).
Con Hendrix bisogna perciò, appunto, unire tutto: sessualità, esperienze lisergiche (droghe, se vogliamo dirla schietta) e talento visionario prestato a uno strumento fino a quel momento “accarezzato” ma con il quale nessuno, per così dire, ha ancora “fatto l’amore”. O nessuno, se è per questo, ad una chitarra ha ancora nemmeno dato fuoco sul palco.
E la sua profezia sull’arrivo della nuova era il chitarrista americano la rappresenta così, con performance quasi pirotecniche e funamboliche, del calibro che fanno infuriare un Eric Clapton (che in una occasione se ne va letteralmente rosso di rabbia da una sua esibizione) nella loro esplosione di carisma.
E non bisogna però farsi trarre in inganno: la tecnica c’è ed è anche tanta, ma non si parla tanto di bravura d’esecuzione quanto di abilità nel mescolare, in tempo reale, linguaggi provenienti da tutti i generi di musica. In Hendrix ci sono il jazz, il blues, il soul; ma anche la psichedelia, il nascente hard rock, le melodie del pop. Anche qui troviamo un’unione, una commistione.
Questo perché per lui la vita è troppo breve e il mondo è troppo bello per limitarsi e per porsi dei confini; lo capisce prima e meglio di molti altri, specie di tanti musicisti bianchi. E allora la sua arte diventa una specie di viaggio infinito tra le diverse dimensioni, musica liquida che si scioglie e si rigenera nelle forme più diverse; libera nella struttura, adattabile a qualunque messaggio.
Chi quindi lo taccia di essere una specie di clown delle sei corde manca spesso di cogliere la sua importanza come icona non solo del suo strumento ma di una ricerca di libertà assoluta che egli va a rappresentare. I suoi tre album con Noel Redding e Mitch Mitchell (a loro volta due mostri incommensurabilmente sottovalutati e criminalmente dimenticati) ne sono il testamento ideale.
Da Hey Joe a Purple Haze e da Castles Made of Sand a Little Wing, da Crosstown Traffic a Fire e da Foxy Lady alla sua versione di All Along the Watchtower, Hendrix è autore e interprete geniale, autenticamente rivoluzionario e sentitamente, quasi spiritualmente legato all’intensità di ciò che con le sue dita comunica in tempo reale, come un sacerdote gospel rapito dal suo stesso canto religioso.
Lo si coglie quando suona con gli occhi chiusi e con la bocca aperta, come in preda a un orgasmo; ma anche quando lascia scivolare le dita con somma grazia sui tasti, da “amante” esperto, sapendo di poter trarre dalla chitarra esattamente i suoni che gli servono, “parlando” con lei e tramite lei. In questo senso è molto più un musicista jazz che rock.
E sulla sua fine viene quasi da pensare: come poteva un fenomeno del genere non svanire, non essere effimero e farsi portare via dal vento? Ribaltiamo la questione: se non ci fosse stato lui, sarebbe giunto un altro Hendrix? La stessa domanda si potrebbe porre per quanto riguarda i Beatles o altri maestri come Eddie Van Halen, Jimmy Page o (in un modo tutto suo) Frank Zappa.
Ma il fatto è che Hendrix non è stato solo un grande chitarrista e non è stato solo “il” chitarrista: la cosa che va assolutamente capita è che quest’uomo semplice e spontaneo è riuscito in qualche modo ad incarnare in sé l’intera evoluzione della cultura del novecento, l’unione tra bianchi e neri (e tra tutti quanti), la scoperta di nuovi sensi, in definitiva una nuova visione del mondo. E ha lasciato tutto a noi.