Oggi l’uscita di un gioco indipendente è sempre salutata calorosamente come un evento pronto a restituire nuova linfa all’industria. È ormai talmente nobile lo status di cui godono queste produzioni da diventare talvolta addirittura le capofila delle lineup delle maggiori console. Eppure ad Asterigos: Curse of the stars sembrano mancare quegli elementi che trasformano un videogioco di una certa fattura in un’opera destinata a ritagliarsi un posto nella bacheca di un videogiocatore.
C’è il rischio di innescare un ragionamento un po’ perverso, per il quale si ammettono al giudizio positivo solamente opere che in un modo o nell’altro riescono a settare degli standard su un aspetto cruciale del fare videogiochi. Ribaltando la premessa iniziale bisogna però ammettere un’evidenza. Tante opere indipendenti oggi diventano pietre miliari perché riescono a trasformare i propri punti deboli in valori aggiunti. Riescono in ciò concentrandosi spesso su pochi comparti o elementi, e rendendoli realmente indimenticabili. Asterigos tenta un approccio diverso, forse non riuscendo a centrare l’obiettivo.
Non è una questione di ispirazione, o di geniale emulazione: Asterigos è un’opera fortemente derivativa. D’altronde quale gioco non lo è, si potrebbe ribattere. In questo caso però i modelli di riferimento settano delle coordinate tra le quali Asterigos si muove in maniera piuttosto confusa, non riuscendo a marcare un’inequivocabile identità propria. Più d’uno si sarà accorto delle similitudini superficiali con Immortals Phoenix Rising, prova del fuoco di Ubisoft che già spingeva molto sulla riproposizione di schemi validati da ben altri capolavori.
Asterigos, pregi e difetti del manierismo
Prendendo il pad alla mano ci addentreremo in un gioco che ricorda Kena per un certo modo di sviluppare il gameplay, che però poi incontra al crocevia il sempre più inflazionato genere dei souls like. Già da queste sensazioni prettamente epidermiche subentra il sospetto che Asterigos manchi di una propria direzione: ecco quindi il dubbio cruciale se il problema risieda nel manierismo in sé o nella scelta dei modelli a cui ispirarsi.
In effetti forse con questi tre esempi possiamo sviluppare ulteriormente il ragionamento, evidenziando le falle di questo gioco con cui Acme Gamestudio ha cercato di dire la sua nel genere dell’action GDR. Per fortuna la similitudine con Immortals resta poco più che un lontano rimando comune ad alcuni motivi. Vivremo qualche dejavu nello stile grafico scelto per i personaggi e il mondo di gioco, e forse alle volte ci accorgeremo di qualche somiglianza nella UX-UI.
Il punto però è che i due giochi vivono entrambi sullo sfondo comune della mitologia greca. Non vogliamo ora addentrarci in paragoni di merito, quanto piuttosto evidenziare come in Asterigos manchi un world building che sia realmente capace di affascinarci fino a rapirci. Il level design è minimo, spesso confusionario, troppo spesso privo di dettagli che ne sottolineino la caratterizzazione. L’ibrido del mondo aperto e del livello diviso per quadri non riesce a restituire una visione di insieme di una Aphes davvero anonima.
Questo porta a scoraggiare l’esplorazione, che dovrebbe invece costituire una parte fondamentale dell’esperienza di gioco come Asterigos stesso cerca di convincerci senza però riuscirci. Una narrazione della lore fin troppo verbosa completano le componenti della traiettoria dei pugnali di Hilda, che troppo spesso mancheranno il bersaglio.
Asterigos: gameplay e combat system
E lo mancheranno perché il sistema di puntamento dei bersagli è tremendamente impreciso e legnoso. Se uniamo a questo l’aggro dei nemici non perfettamente calibrato una telecamera con più di qualche difetto, abbiamo più di un problema. Persino nella mappatura dei comandi si sarebbe potuto fare uno sforzo superiore. Un esempio su tutti la meccanica del salto, legata in modo maldestro al tasto che permette di correre.
Questi potrebbero essere aspetti assolutamente marginali, ma in un gameplay improntato a combattimenti settati su un certo livello di difficoltà si percepirà una frustrazione crescente che tuttavia non spinge quasi mai ad affrontare la sfida con un approccio più costruttivo.
Il souls like resta, probabilmente per fortuna, solo un lontano modello da cui attingere per alcuni stilemi, adattati con una personalissima interpretazione e che schivano quindi confronti impietosi con i molteplici emuli della saga From Software. Benché però nelle premesse il gioco sembra costruire un combat system intrigante, strutturato ma accessibile, complesso ma immediato, alla fine resta la percezione di qualcosa che tende ad essere un po’ banalizzato.
Succede qualcosa, tuttavia. Succede che il gioco sia effettivamente capace di divertire, nella scoperta della combinazione delle armi tra tecniche, parry e combo che si negano al button smashing. Succede che il repertorio di nemici e di boss ci metta di fronte ad un bestiario che, nonostante pattern d’attacco non particolarmente ispirati, ci spinge a trovare soluzioni che sfruttino quelle combinazioni, seppur elementari. Succede che allora forse riusciamo a perdonare un comparto tecnico poco più che discreto, che ancora manca di sfiorare il marchio di assoluta qualità in almeno un aspetto, come ad esempio Kena è riuscito invece a fare sotto alcuni di questi punti di vista.
Asterigos è quindi un gioco che resta come genuinamente ingenuo da tante prospettive. Chiudendo il cerchio, riformuliamo l’assunzione iniziale in una domanda. Quali siano i confini tra grandi produzioni e piccolo artigianato oggi è forse una lecita perplessità. Complice un circolo di industria e pubblico che spinge sull’eccellenza e la richiede costantemente. E questi giochi finiscono per occupare la zona d’ombra, incapace realmente di sfidare la logica del mercato videoludico con offerte di un valore diverso.
Questo valore potrebbe essere quello di riscoprirsi anche noi ingenui, nuovi ad un mondo nel quale per una volta possiamo dimenticare lo standard che diventa un vizio di forma. Asterigos, alla fine della sua avventura, rimane ancora, anch’esso, un interrogativo.