Red Hot Chili Peppers – Return of the Dream Canteen | RECENSIONE

Return of the Dream Canteen
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Non sappiamo quale sia questa dream canteen a cui i Red Hot cercano di fare ritorno per la seconda volta quest’anno. Se sia la villa in cui si riunirono nelle settimane che diedero vita a Blood Sugar Sex Magik, o questo luogo al limite del mistico in cui abitano spiriti cosmici e soffiano afflati di creazione che John Frusciante ci racconta nel suo diario ai tempi di Californication.

Non è però di certo un caso se viene spontaneo citare questi due capolavori per introdurre questo nuovo disco. Return of the Dream Canteen, dopo il preludio spurio che è stato Unlimited Love a questo viaggio a ritroso, è davvero capace di rimaterializzare questo non-luogo, questo refettorio in cui nutrirsi di sogni e magia.

È inutile ribadire a questo punto della carriera dei Red Hot che non di solo funk vivrà l’uomo. La matrice più pop e quella più puramente hard rock da sempre convivono all’interno della loro produzione, e nel mezzo spiccano quelle intense e struggenti ballad, ormai immortali gioielli della storia del rock.

Unlimited Love però sembrava ancora, per certi versi, l’estrema propaggine delle ultime produzioni, spesso più insipide che piccanti. Abbiamo sì felicemente ritrovato tutti gli ingredienti delle gloriose stagioni dei Red Hot, fino a tornare persino alle origini di Freaky Stiley.

Ciò che mancava era una direzione, un senso che unificasse le molteplici suggestioni. Con questi ulteriori 17 brani invece i Red Hot dribblano il rischio di un disco di b-sides, si fanno beffa dei meccanismi dell’industria discografica, e riescono a tornare all’essenza, al nucleo del loro modo di fare musica. Return of the Dream Canteen riesce in effetti a ricreare davvero quella one entity, sancendo l’inizio di una nuova stagione.

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Return of the Dream Canteen: funk e melodismo…

Forse Frusciante aveva bisogno di tempo per tornare realmente alle chitarre dopo la lunga sperimentazione elettronica che ha caratterizzato gran parte della sua esperienza da solista. In Unlimited Love fungeva essenzialmente da prezioso contrappunto ad un Flea quasi indomabile, forse addirittura fuori misura. Tippa My Tongue non è allora solo un brillante ouverture funk, ma anche il vero e glorioso ritorno di John Frusciante ad un più marcato protagonismo.

Bastano i pochi secondi di bridge dopo il primo ritornello per ritrovare quel modo di fraseggiare che è la sua cifra distintiva. Dieci secondi che hanno il sapore di un solo, una manciata di note che plasmano la voce dello strumento, gettando le fondamenta di tutto il disco. Si prosegue infatti inevitabilmente sulla stessa linea con Peace and Love, come a voler soddisfare una brama che resta insaziabile. E ancora, quindi, in Fake as Fu@k, le metriche del funk trovano nelle sei corde di Frusciante un alleato essenziale.

Ma negli anni Frusciante ha attraversato numerose fasi nella ricerca sul suono, dai timbri graffianti che ritroviamo nell’incipit di Carry Me Home all’estremo minimalismo, passando per un più ampio e disteso melodismo. Eddie è la prima reale ballad del disco, e le fondamenta della sua potenza evocativa sono tutte da ricercare nel fraseggio di Frusciante.

Il miracolo vero accade però con Bella, dove finalmente ritroviamo l’organica integrazione di tutti quegli stili e linguaggi che attraversano la discografia dei peperoncini. Forse non il momento più alto di Return of the Dream Canteen, ma il più significativo, che ci ricorda l’importanza della ricerca del suono come continua indagine e riscoperta della propria identità.

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…eterni ritorni…

Nei live di quest’estate abbiamo trovato un Flea al limite dell’istrionismo, esplosivo come lo abbiamo sentito in Unlimited Love. Una conferma non necessaria della centralità del suo basso, che però viene ricondotto in Return of the Dream Canteen ad una maggiore integrazione col resto della band.

E mentre restiamo incantati dalla splendida alchimia a dieci corde tra la pulce e Frusciante, Chad Smith ci ricorda la sua presenza fondamentale di metronomo infaticabile. L’artiglieria pesante è messa da parte a favore di una maggiore attenzione all’invenzione ritmica. Esemplare, nomen omen, è The Drummer, in cui setta un groove davvero irresistibile.

E proprio questo brano svela all’ascolto la ricchezza musicale del disco, che non è solo timbro e materia ma anche invenzione e sperimentazione. Bastano piccole incursioni, improvvise modulazioni al bivio che rinnovano la freschezza e l’originalità di un brano squisitamente classico.

…e il senso della sperimentazione.

E di un disco che è già un magnifico classico, suona come un post scriptum, quasi un memorandum, l’ultima traccia del disco. La splendida In the snow chiude il cerchio segnando i nuovi confini della sperimentazione sonora dei Red Hot Chili Peppers su un’orchestrazione eterea, praticamente impalpabile.

Siamo insomma tornati nell’officina del suono targata RHCP: ad accompagnarci un Kiedis che sembra essere perfettamente a suo agio su testi più complessi, con una vocalità che sembra non conoscere vecchiaia. Piuttosto, una nuova giovinezza. Possiamo dirlo con certezza questa volta: they’re Red Hot.

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