Siccità, Recensione del film di Paolo Virzì [Venezia79]

Al Festival di Venezia torna Paolo Virzì, Fuori Concorso, con una pellicola attuale e distopica al tempo stesso

Condividi l'articolo

Ogni volta che ci sono film italiani presenti all’interno della selezione di un festival cinematografico viene da chiedersi se non fosse stato meglio invertire i ruoli tra film in concorso e film fuori concorso. È quello che è successo a Siccità di Paolo Virzì, presentato Fuori Concorso al Festival di Venezia (qui tutti i vincitori) e che non avrebbe di certo sfigurato nella Selezione Ufficiale, al posto ad esempio de L’immensità di Emanuele Crialese.

Sappiamo, tuttavia, che i paragoni lasciano il tempo che trovano e che molto spesso, per la settima arte, è deleterio stare lì a fare confronti che, forse, non hanno nemmeno così tanto senso, specie se si accostano a prodotti che sono differenti, perché se L’immensità offre lo spaccato di una famiglia qualunque nella Roma degli anni ’70, Siccità guarda allo spaccato di una romanità smarrita in un futuro che, purtroppo, non sembra nemmeno così lontano.

Siccità, la trama

Il Tevere è una distesa di terra arida, baciata da un Sole abbacinante che sembra non voler risparmiare nessuno. Le blatte camminano sulle strade e all’interno dei palazzi, neanche fossero il prologo di una nuova piaga biblica.

Tra i quartieri di Roma si sta sollevando il popolo che vede l’acqua venir razionalizzata a causa della mancanza di piogge che ha portato una terribile ondata di siccità. Su questo scenario distopico e quasi post-apocalittico, una serie di personaggi cerca comunque di arrivare a fine giornata.

Un carcerato (Silvio Orlando) si trova stranamente libero e con la possibilità di affrontare un grande rimorso. Un medico (Claudia Pandolfi) fa turni massacranti in ospedale, alla ricerca di un virus che potrebbe spiegare un’ondata di “malati del sonno”, mentre sospetta del tradimento del marito (Vinicio Marchioni).

L’erede di una famiglia di imprenditori (Emanuela Fanelli) si deve abituate alla sua nuova guardia del corpo, mentre un autista privato (Valerio Mastandrea) cerca di racimolare qualche soldo mentre è perseguitato dai fantasmi del passato.

Siccità: Recensione

L’Italia ferita nella satira di Virzì

Il primo aspetto che si può sottolineare di Siccità – e che è anche il primo che salta all’occhio durante la visione – è il suo essere estremamente attuale.

Ideato durante la pandemia, il film di Paolo Virzì è un’opera che mette in mostra proprio quel baratro, quella solitudine risonante che da una parte ha scavato nuove ferite nell’umanità e dall’altra ha spinto a cercare conforto negli altri, proprio perché “siamo tutti sulla stessa barca”.

Un concetto, questo, che non è mai stato vero nella realtà così come non lo è nel film di Virzì: perché se da una parte c’è un personaggio come quello di Valerio Mastandrea che a stento riesce ad arrivare a fine mese, dall’altra c’è una grande attrice (Monica Bellucci) che non si pone il problema di usare l’idromassaggio durante un’emergenza idrica, in una Roma dove non piove da più di un anno.

Siccità è un film che racconta questa umanità spaccata, nella quale poi non è nemmeno così difficile riconoscersi (a dispetto delle storie individuali dei singoli personaggi), ma lo fa quasi sempre con una satira schiacciante, precisa, che ci spinge a sorridere di qualcosa che invece è terrorizzante: dall’esperto che si lascia irretire dalle luci della ribalta, all’uomo di successo (Max Tortora) costretto a vivere per strada, senza più appigli nemmeno agli occhi della legge.

Siccità, giocando anche sullo stereotipo di Roma Ladrona e della dicotomia Nord e Sud, porta in scena un’Italia dilaniata, che cerca di nascondere sotto il tappeto ciò che non funziona, ciò che non va bene, proprio come si fa con le blatte che tagliano lo schermo, che lo attraversano come un presagio di sventura.

Tutto ciò realizzato però con i tempi cadenzati di una commedia, dove non mancano le risate e dove tutti i personaggi hanno qualcosa da offrire, qualcosa di sé da portare nei personaggi che Paolo Virzì tratta con un amore che trasuda dallo schermo e che li fa apparire ancora più umani.

A funzionare, comunque, è soprattutto la struttura corale della pellicola che si concentra su vari livelli socio-economici per mostrare più maschere della stessa tragedia e portando così lo spettatore a non avere mai cali di attenzione, alla ricerca del nodo che possa sbrogliare l’intera matassa narrativa, fatta di satira ma anche di un sotterraneo senso di terrore e ansia.