Consigli cinefili per combattere la calura!
A proposito di grandi star: se Di Caprio e Tom Cruise restano gli unici a rivestire nell’immaginario collettivo un ruolo paragonabile ai grandi del passato, un progetto come I Mercenari vale soprattutto come ironico ripasso di questo ormai sepolto rapporto pubblico-attore.
In un’era in cui i personaggi hanno ormai cannibalizzato i propri interpreti, Stallone e compagni giocano ormai da un decennio a rievocare le ultime stagioni del divismo. La grande idea dei Mercenari sta ovviamente nel combinare il rituale quasi religioso che lega(va) il fan alla Star, con il genere meno nobilitato di tutti: l’action movie cafone anni ’80.
Il più vituperato dei filoni commerciali celebra allora se stesso e i propri eroi senza vergogna, ma pagando il pegno a quell’autoironia un po’ svilente con cui ogni epica moderna sembra dover fare i conti.
Dei tre film finora girati, il secondo è forse il migliore, quasi sicuramente il più “vicino” a quell’idea di action definitivo inizialmente rincorsa – laddove già il terzo avrebbe abbracciato con sempre più sicurezza la via dell’autoparodia.
Tra le poche concessioni all’autorialità dello sfarzoso luglio Netflix, L’Uomo della Pioggia appartiene a una stagione particolare nel percorso di Francis Ford Coppola. Pochi grandi maestri hanno dovuto fare i conti con un proseguimento di carriera così difficile a seguito di un esordio tanto fulminante (il paragone più ovvio verrebbe con Welles, imbattuto re dei perseguitati).
Con Apocalypse Now si chiuse anzitempo la stagione d’oro di Coppola, aprendo un decennio di progetti sfortunati, che avrebbe portato il regista agli anni ’90 con lo stigma del flop perpetuo.
Dopo dieci anni di film immensi e invendibili come Rumble Fish o The Outsiders, era forse il momento di pagare i debiti: The Rainmaker fu dunque il ritorno al cinema commerciale, nuova fase di compromesso (già aperta da Il Padrino 3 e Dracula) con cui l’autore rimise il proprio nome a servizio delle grandi Case.
Il giudizio su questi film è stato per anni esageratamente aspro. Non diversamente dall’amico Scorsese, anche Coppola dimostrò maestria invidiabile nell’applicare il proprio personalissimo stile al lungometraggio su commissione, facendo propri i progetti superficialmente più disparati. Il legal thriller da John Grisham è di per se quanto di più nineties non si può: un sottogenere in cui il contributo di Coppola continua a brillare.
Tra le mille saghe nate nei 2000 in scia alla riscoperta del fantastico para-tolkieniano, con Underworld il tempo sembra essere stato particolarmente crudele.
In un’era in cui il reboot, la serie, lo spin-off non si nega a nessuno, la bizzarra saga horror-fantasy-action giace lì dimenticata; l’ultimo film ha ormai sette anni, e già allora si respirava aria di smobilitazione.
Chissà che a qualcuno non venga in mente di andarci a rimettere le mani, ora che il comune sentimento di nostalgia è definitivamente shiftato verso i primi anni duemila.
A riguardarlo oggi, è chiaro che un’eventuale riscoperta di Underworld dovrebbe passare sopra a tante cose: il film di Len Wiseman è un distillato della propria epoca a livelli quasi parodici, frullato di visuals tardo-Mtv, estetiche emo-goth, e pattume orrorifico postmodernizzato in un confuso lore di cui non sembra mai essere importato molto a nessuno.
Eppure, indica una via editoriale al blockbuster sorprendentemente moderna: nonostante il soggetto, è una giostra anemica senza sangue, né violenza, né paura. C’è invece tanto digitale, e un orgoglioso tono da intrattenimento liceale. Praticamente pronto per il remake Warner.
