I Beatles del Punk: i 50 anni dei Roxy Music e la Recensione del loro primo storico album
L'album d'esordio della straordinaria band britannica dei Roxy Music compie quest'oggi mezzo secolo. Vediamo insieme quali sono le caratteristiche che lo rendono quel capolavoro senza tempo ch'è stato, è, e sarà per sempre.
Inserire come titolo di un’articolo un’affermazione così grande, è sicuramente una notevole dichiarazione d’intenti che necessità quanto meno una spiegazione puntigliosa. Perché i Roxy Music sarebbero dunque i Beatles del Punk? Beh, innanzitutto non è un’affermazione uscita dalle nostre bocche.
Essa infatti è uscita da una bocca che assai più di noi può pronunciarsi sul fenomeno Punk. Una bocca che appartiene a qualcuno che ha contribuito a dar vita al concetto stesso di “Punk”, nella forma in cui lo conosciamo. Stiamo parlando niente meno che del chitarrista dei Sex Pistols: Steve Jones.
Egli infatti non solo ha sempre affermato che i Roxy Music son sempre stati una delle sue band preferite, il loro disco d’esordio uno dei suoi dischi preferiti e che la sua prima band si chiamava “The Strand” in onore di una loro canzone (“Do The Strand“, dal loro secondo lavoro: “For Your Pleasure“). Jones afferma inoltre che lo stile dei Roxy Music ebbe una notevolissima influenza sulla mania Punk di cui egli stesso era parte attiva.
La Frase
Anziché fermarsi ad affermarlo e basta, Jones ne fece un vero e proprio motto di spirito quando durante le riprese del documentario “The Story of Roxy Music“, uscito nei primi anni 2000, se ne uscì con la frase da cui abbiam preso spunto per nominare l’articolo: “Per noi [Sex Pistols] erano i nostri Beatles“.
Chi più di lui può rendere credibile questa frase? Forse giusto il suo collega Johnny Rotten, il quale siam sicuri sarebbe dello stesso identico parere. Non è finita qui però. Man mano che proseguirà questo articolo, cercheremo di farvi rendere conto che questa affermazione, per quanto importante, non è comunque esaustiva.
Infatti siam convinti che i Roxy Music non siano solo i padrini del Punk (primato che comunque va conteso con numerose altre band, dai Velvet Underground a venir su) ma di altre realtà musicali altrettanto importanti, le quali avrebbero senz’altro risentito di un’eventuale loro assenza dalla storia della musica.
1970: l’Anno del Rifiuto
Se dovesse esserci tra voi lettori qualche eremita vissuto in una caverna negli ultimi 50 anni, andremo in maniera breve ma concisa a spiegare chi effettivamente siano questi famigerati Roxy Music. La band britannica nasce -almeno coincidentalmente- grazie a un rifiuto dei King Crimson, per i quali il cantante e band leader Brian Ferry aveva tenuto un’audizione che era andata male.
Male fino a un certo punto, visto che Peter Sinfield -paroliere dei King Crimson- avrebbe deciso da lì a breve di dar al signor Ferry una mano con la band che stava mettendo su, e che all’epoca si trovava ancora in uno stato embrionale. Egli infatti fino a quel punto si era limitato a scrivere un annuncio in cui cercava un tastierista, a cui rispose mesi più tardi un certo Andy Mackay, presentandosi però come sassofonista ed oboista.
E non solo, perché Mackay si porto con se un tale Brian Eno, suo compagno di università, presentandolo come un eventuale consulente tecnico. Insomma: un’audizione andata male, un sassofonista che risponde ad un annuncio per tastieristi, e un tizio che non suona nulla ingaggiato come consulente. Diciamo che gli auspici non erano dei migliori.
Fortunatamente un bassista già c’era (tale Graham Simpson) e non passò molto tempo prima che le fila della band si colmassero. Da lì a breve, infatti, comparvero Roger Bunn alla chitarra (musicista già affermato con dei dischi da solista all’attivo) e Dexter Lloyd alla batteria (suonatori di timpani nelle orchestre).
Fatta la band, non restava altro che nominarla. Fu a Brian Ferry che venne in mente il nome “Roxy“, sfogliando un elenco di nomi di vecchi cinema. Dice di aver scelto questo nome per la sua risonanza foneticae per il fascino retrò che secondo lui possiedono tutte le cose cui viene associato. Non vi aveva trovato un significato simbolico da affibbiare a qualcosa di più profondo che non fosse un semplice epiteto. Era semplicemente perfetto da accostare alla parola “Music”. E tanto bastava.
1971: “cercasi batterista meraviglioso per band Avant Rock”
Fu con questo spassosissimo annuncio che la band, dopo appena un anno di attività, trovò già il suo secondo batterista. Paul Thompson fece infatti tornare il povero Lloyd dietro i timpani dopo aver risposto alla chiamata di Ferry e compagni, i quali cercavano qualcuno il cui sound potesse risultare il più incisivo possibile. Lo stesso dicasi per Roger Bunn, che per quanto bravo non sarebbe mai potuto essere per la band quel che Phil Manzanera seppe essere alla grande. E senza tanti sforzi.
Certo, dapprima Phil dovette accontentarsi di fare per i Roxy Music il roadie (tecnico tuttofare che viaggia assieme alla band durante le tournée) anziché far loro da nuovo chitarrista. Questo poiché ai provini per il sostituto di Bunn venne scartato, e dovette quindi accontentarsi di portar loro gli strumenti sul palco. Neanche fossero stati i veri Beatles! Evidentemente, il buon Phil, ci aveva già visto lungo circa quello stile avveniristico che la band mostrava. Fin dai suoi primi passi.
Un Successo Rapido ad Arrivare
Dopo qualche concerto dei Roxy cui assistette da dietro le quinte, Manzanera entrò finalmente in line up, creando insieme agli altri quella formazione con cui avrebbero esordito discograficamente appenaun anno più tardi. Nel frattempo, la band si sarebbe crogiolata negli elogi di Melody Maker (la rivista dove Ferry lasciava i suoi bizzarri annunci che in poco tempo cominciò a parlare benissimo di loro) apparendo nello stesso periodo nelle trasmissioni radiofoniche della BBC, specie in quella tenuta da John Peel, figura di spicco all’interno dell’ambito della divulgazione musicale giovanile.
Insomma, dopo neanche due anni di attività, il nome Roxy Music era già sulla bocca di molti. E senza neanche un sol disco all’attivo! Sintomo che la caratura artistica di tali individui, non passava certo inosservata.
1972: Un Travagliatissimo Esordio
Come avevamo accennato poc’anzi, il ruolo dei King Crimson fu fondamentale per i Roxy Music. Ed infatti, fu proprio il già citato Peter Sinfield a produrre il loro album d’esordio: “Roxy Music“. Con un nome così di spicco a far da padrino, apparentemente il disco omonimo della band di Brian Ferry aveva già la strada bella che spianata. Ma la realtà fu ben diversa.
Nonostante la notevole gavetta esperita nei primi due anni di vita della band, ai Roxy occorsero ben due mesi di prove e perfezionamenti prima di poter preconfezionare del materiale valido per la registrazione. A ciò si aggiunse la difficoltà nel trovare uno studio di registrazione che potesse ospitare una band di sei elementi, e una volta trovata la location adatta, subentrò il problema della contrattualità discografica.
Sebbene infatti Ferry e compagni furono affidati in quel periodo al managing di David Enthoven e John Gaydon della E.G. Records, sotto raccomandazione di Sinfield, il sestetto non possedeva ancora un contratto discografico grazie al quale il disco potesse esser pubblicato senza problemi. Si dovette addirittura aspettare la fine delle registrazioni, avvenute nell’arco di una sola settimana, prima che la band riuscisse finalmente a firmare per la Island Records, l’etichetta discografica presso la quale furono pubblicati tutti i dischi dei Roxy Music da qui fino al 1976.
Tutto alla Rovescia
Quella fatidica e stra-produttiva settimana, non fu solo frutto del grandioso talento della band britannica, ma anche giocoforza l’unico lasso di tempo tollerabile per chi come Enthoven e Gaydon dovette sobbarcarsi le spese di registrazione di un disco che fino a quel momento non possedeva il supporto di alcuna etichetta discografica (arrivarono a spendere in tuttocirca cinquemila sterline, più o meno mille euro attuali al giorno).
Fa specie pensare che in un mondo in cui le band si fanno strada dapprima attraverso un manager, poi grazie al fiuto dei discografici, e infine col sostegno di un produttore, i Roxy Music abbiano fatto l’esatto contrario. Loro han: trovato un produttore (Peter Sinfield dei King Crimson), quest’ultimo ha trovato loro dei manager (i titolari della E.G. Records) ed in seguito, a disco realizzato, han trovato finalmente un etichetta discografica. E la cosa fantastica, è che non stiamo parlando di un dischetto qualunque: qui si parla di una pietra miliare della storia della musica.
Glam! Visivamente…
Prima di giustificare questa nostra ultima affermazione, urge svelare altri interessanti retroscena del disco. In primis possiamo dire che a scattare l’iconica fotografia che fa da copertina al disco fu il fotografo americano Karl Stoecker, famoso tra gli anni ’80 e ’90 per le sue collaborazioni con grandi marchi di moda e cosmetici quali Yves Saint Laurent, Lancome e Oscar de la Renta.
Ma poco ci importano queste sue collaborazioni. A noi (e credo anche a voi lettori) interessano maggiormente i suoi scatti artistici piuttosto che quelli pubblicitari. Non è certo grazie ai marchi di moda se Stoecker viene considerato il fotografo della “Glam Era”, nomea guadagnata grazie ai suoi scatti provocatori che ritraevano le icone Glam del momento.
Tra esse possiamo nominare Amanda Lear (musa di Dalì, presente nella copertina del secondo disco dei Roxy Music), Ernst Thormahlen (amico di Lou Reed che appare sul retro della copertina del suo disco capolavoro “Transformer“) e la nostra Kari-Ann Muller. Diciamo la nostra perché è proprio lei ad apparire sulla copertina di “Roxy Music“, in quella straordinaria posa plastica vista dall’alto che imita (per precisa volontà di Stoecker) le ragazze Pin-Up degli anni ’40. Lei che tra le altre cose è la cognata di Mick Jagger, essendo sposata con suo fratello minore Chris da qualche decennio.
…e anche Sonoramente
Tutta questa dissertazione sulla copertina del disco potrebbe avervi tediato, lo sappiamo, ma ci serviva per tirare le fila di quel discorso “cross-genres” (cioè che incrocia più generi musicali) che abbiam iniziato con la frase: “siam convinti che i Roxy Music non siano solo i padrini del Punk“.
Ebbene, ora potete cominciare a capire il perché. Di fatti, l’estetica Glam della copertina dei loro dischi, non si limita ad un immagine statica stampata su di un cd o su un vinile. Essa trapela da ogni paillettes, da ogni lustrino e da ogni abito attillato indossato dai membri della band. E, cosa più importante: trapela dalla loro musica, dove David Bowie, i T. Rex e i New York Dolls (altri padrini del Punk) si mescolano a sonorità inaudite ed avanguardistiche. E perché no: anche al Punk. Ma di certo non solo a quello.
Nel Vivo del Disco: Traccia N.1
Dopo questo lungo peregrinare attorno a questo fantomatico esordio che ci siam presi l’onere di chiamare “pietra miliare”, è giunto finalmente il momento di capire per quale motivo c’è effettivamente il bisogno di usare parole tanto forti. Il disco si apre con la straordinaria “Re-Make/Re-Model“, la quale getta le basi per quello che sarà il sound che ci accompagnerà per i successivi 40 minuti.
L’idea alla base dell’intro è tanto semplice quanto efficace: siamo ad un cocktail party. Gente che parla e bicchieri che tintinnano. Degli accordi di piano spezzano questa quiete, quasi come se al party si fosse imbucata una band che nessuno si aspettava.
È già il caso di fermarsi ad analizzare cosa succede, perché quelli non sono semplici accordi, bensì una riproposizione pianistica della sigla di “Peter Gunn“, serie tv crime americana creata da Blake Edwards; e in particolare nella versione suonata dall’icona Rock and Roll anni ’50 Duane Eddy. È qui che si cela il vero significato nascosto di questa prima traccia (il cui testo in realtà parla del timore di fronte alla bellezza femminile): Remake and Remodel, Rifare e Rimodellare.
Esattamente quel che accade per quella sigla! Rifatta, riproposta, rivisitata. Un concetto che viene ampliato a metà pezzo, quando avvengono gli scambi dei vari strumenti che a turno propongono un mini assolo. Qui abbiamo il basso che imita l’iconico riff beatlesiano “Day Tripper” e il sassofono che fa addirittura il verso a Wagner e alla sua Cavalcata delle Valchirie. E siamo solo a metà canzone.
Un Androide al Femminile
La cacofonia e l’irrequietezza di “Remake-Remodel” (analizzata parzialmente per potervi permettere di scoprirla da soli in tutta la sua magnificenza) lasciano il posto al rigoree alla compostezza della traccia numero due: “Ladytron“. Il riferimento al Concerto n.3 per Pianoforte e Orchestra op.26 di Sergej Prokof’ev contenuto nella partitura di oboe che segue l’introduzione eterea proposta dai synth di Brian Eno, oltre a proseguire il concetto di rivisitazione proposto nella prima traccia, si lega perfettamente all’ideache questo brano parli di un amore impossibile tra un umano e un robot dalle fattezze femminili.
La bellezza di questo essere artificiale, sarebbe quindi incarnata dalle sinuose sonorità dell’oboe, contrapposte a quelle del sintetizzatore che -sotto richiesta di Brian Ferry- doveva simulare i suoni del modulo lunare col quale si raggiunse la luna nel 1969. Questi suoni potrebbero esprimere proprio la freddezzae la misteriosità di quel corpo metallico di cui si innamora il protagonista di questa canzone.
Paralipomeni del Lato A
Il concetto enorme espresso dal brano precedente, abbinato inoltre ad una costruzione musicale del branodegna di un pezzo orchestrale, lascia spazio alle atmosfere apparentemente più scanzonate di “If There is Something“. Già: solo apparentemente. Sì perché se l’intro in stile Southern Rock del brano potrebbe lasciar trapelare una minore ricerca sonora, già con la seconda parte del brano veniamo investiti da un intrecciarsi superbo di chitarra e sassofono, che introducono inoltre ad una partitura vocale più lancinante e complessa, costruita su dei riverberati spasmodici.
Con la terza parte siam poi nuovamente catapultati su un altro binario, percorso da un’impostazione del mellotronche simula un terzetto d’archi, una voce al limite del gridato e un incedere strumentale che dal crescendo vira verso il gran finale suonato da tutti all’unisono.
È dal punto di vista concettuale che il pezzo non regala chissà quali voli pindarici. Cosa che assolutamente non può dirsi della successiva “2HB” (To Humphrey Bogart), che riprende il tema della rivisitazione proposto nella prima traccia regalandoci una gustosissima reinterpretazione del classico della musica Jazz: “As Time Goes By“, contenuto guarda caso nel film “Casablanca” (il cui protagonista è appunto il grande Humphrey Bogart). Potrete godere di questa squisita rivisitazione concentrandovi sul solo di sax presente nella seconda parte del brano.
Precorrere il “Nuovo”: New Wave & New Romantic
Prima d’introdurre i brani della seconda parte del disco, si rende quanto mai necessario riprendere quell’aspetto “cross-genres” di cui sopra. Ci siam prefissati un obiettivo ed è giusto portarlo a termine! Innanzitutto, urge fare le dovute distinzioni: se la musica proveniente dal movimento New Wave è contraddistinta da un «forte legame con la musica Punk pur non suonando Punk» (Charles Shaar Murray), la musica New Romantic rappresenta una costola di questo movimento, contraddistinta da delle sonorità Synth Pop e da un uso malinconico ed introspettivo dei testi. Se vogliamo poi aggiungere il tassello cronologico, per la New Wave si parte a contare dalla fine degli anni ’70, mentre per la New Romantic bisogna aspettare i primi anni ’80.
Ebbene, è qui che casca il proverbiale asino. Ciò che abbiamo appena descritto era già presente nell’esordio dei Roxy Music: gli echi del Punk (che ancora doveva nascere), l’approccio Punk legato a sonorità completamente diverse, l’utilizzo dei Synth (nella figura di Brian Eno) e l’introspezione malinconica presente nei testi (ad esempio “If There is Something” parla dei diversi approcci amorosi che si hanno col passare delle età: gioventù, età adulta e vecchiaia).
Il tutto con quasi un decennio d’anticipo. Non stupisce infatti che band del calibro di Talking Heads e Japan (rispettivamente capisaldi della New Wave e della New Romantic) abbiano sempre annoverato i Roxy Music tra le loro band preferite. In particolare gli esordi di quest’ultimi risentono pesantemente dell’influenza di Ferry e compagni. Possiamo dunque dichiarare conclusa questa dissertazione circa il concetto di “cross-genres” applicato ai Roxy Music.. Oppure no? Ne riparliamo nella battute finali!
Nel Vivo del Disco: il Lato B (1° parte)
Lasciamoci alle spalle le dissertazioni e rifiondiamoci a bomba all’interno di “Roxy Music“. Eravamo rimasti alla prima traccia del lato B, “The Bob(Medley)“, dove il concettualismo musicale raggiunge picchi inusitati. Il tema principale è la battaglia d’inghilterra (B.O.B, “Battle Of Britain”) il nome di una famosa campagna aerea svoltasi durante la seconda guerra mondiale, combattuta dall’aeronautica militare tedesca (la Luftwaffe) contro il Regno Unito e svoltasi tra l’estate e l’autunno del 1940.
L’asprezza della battaglia è restituita perfettamente dal suono degli spari e delle esplosioni ottenuto mediante campionamenti e modulazioni del VCS3, che fanno da sostrato ad un magistrale intarsio melodico costituito dall’oboe e dal pianoforte, cui si aggiungono poi anche il basso e la batteria.
E con la successiva “Chance Meeting” siamo al terzo riferimento cinematografico di fila (“The Bob” si rifà a “Battle of Britain“, un film degli anni ’60 ispirato all’evento storico omonimo). Ormai è il Rock Sinfonico a farla da padrone, e se in “The Bob” eravamo di fronte ad una mini suite costituita da due parti contrapposte (da qui il sottotitolo “Medley“), qui siam dalle parti di una ballata struggente che non stonerebbe nelle migliori produzioni di Broadway, avente una forma molto più unitaria rispetto alla traccia precedente.
Torna prepotentemente il tema dell’amore -il concept portante dell’intero disco insieme a quello cinematografico- ed è narrato non solo attraverso il canto, ma anche attraverso un disordine sonoro sempre più evidente che la band costruisce con tale perfezione da riuscire ad ingabbiarti in quelle spiacevoli sensazioni che si provano durante il momento dell’addio. Il film cui si riferisce la canzone è infatti “Brief Encounter“: britannico, degli anni ’40, parla appunto di una coppia di amanti ch’è consapevole di non avere futuro. E perciò si separa dolorosamente.
Nel vivo del Disco: Lato B (2° parte)
“Chance Meeting“, con le sue sonorità tendenti al Noise, ci offre uno sguardo del futuro (assomigliando incredibilmente per intenti creativi ad un brano dei Sonic Youth, tale “And i Love Her all the Time“); “Would You Believe?” ci proietta invece in un passato Doo-Wop (misto tra rhythm and blues e rock and roll, di gran voga sul finire degli anni ’50) che strizza anche l’occhio alla prima parte del brano “If There Is Something”.
Se in quel caso l’apparenza ci ingannava, qui invece l’intento è proprio quello di creare un brano dalla struttura classica, dal quale non aspettarsi null’altro se non una sana dose di Rock and Roll.Ma le cose vengono nuovamente stravolte dalla traccia successiva. La penultima del disco. Parliamo chiaramente di “Sea Breezes“, che coi suoi sette minuti di lunghezza, costituisce il brano più lungo di tutto l’album.
A farla da padrone c’è il fruscio delle onde, cui man mano si uniscono gli strumenti. È sicuramente la traccia più evocativa di tutto il disco, complice anche il cantato di Brian Ferry, il quale si fa più soave del solito. Ma ecco arrivare la seconda parte del brano. Tutto viene stravolto da un un basso ballerino e da una batteria imbizzarrita; subito raggiunti dal frastuono generato dalla chitarra e dal sintetizzatore (anche se il finale ci rispedisce verso l’introduzione, donando al brano una squisita circolarità).
Eccoci dunque giunti all’ultima canzone di questo straordinario esordio: “Bitters End“, se possibile ancor più Doo-Wop della già citata “Would You Believe?” e persino più “broadwaysh” di “Chance Meeting”. Geniale la chiusura circolare del disco proposta dall’incursione di quei rumori da cocktail party presenti nella prima traccia, che qui tornano per far da sottofondo ad uno stile di cantato inedito per Brian Ferry, vicino ad un redivivo Elvis Presley. E sono proprio di le note Ferry a chiudere in bellezza il disco.
Conclusione
Cos’altro possiamo aggiungere? Potremmo avvalerci delle parole di Robert Christgau della rivista Creem («La raffinata deformità della musica del disco celebra quel tipo di artificio che potrebbe sembrare malsano come la lucentezza su un pezzo di carne marcia»). Di quelle pronunciate su Rolling Stone («In Inghilterra nei primi anni Settanta, c’erano art-rock nerd e glam-rock sexy e raramente i due si incontravano. Poi è arrivato questo disco»). O di quelle di Colin Larkin, definendo “Roxy Music” una «Boccata d’aria bizzarra» (“All Time Top 1000 Albums“, 1994). Ma preferiamo decisamente metterci del nostro, tornando alla suggestione dei “cross-genres” e mettendo finalmente ad essa un punto.
Southern, Glam, Doo-Wop, Noise, Punk, New Romantic, New Wave.. Persino il Rock Sinfonico e l’Avant Rock (genere citato da loro stessi nell’annuncio del 1971). E ancora l’Art Rock -com’è scritto su Rolling Stone- e anche un po’ di non citato Post-Punk, i cui ancora lontani vagiti si odono flebilmente qui e là nei pezzi più graffianti. Questi sono i generi di cui abbiam discusso in questa sede. In quante altre occasioni vi è capitato di sentirli nominare tutti quanti e tutti assieme?!
“Pro-Genres” & “Proto-Genres”
È proprio legandomi al Post-Punk che mi accingo alle battute finali. Abbiam certamente abusato del termine “cross-genres” lungo l’arco di questo articolo, ma nonostante la complessità che esso si porta dietro, comunque non riesce a descrivereappieno l’importanza storica di “Roxy Music“.
Infatti bisognerebbe parlare anche di “pro-genres” (nel senso di un disco che si fa “promotore di nuovi generi“) nonché di “proto-genres” (cioè un disco che segna il primo fulgido esempio di generi musicali ancora inesistenti). E noi, tra generi e sottogeneri che ancora non c’erano, ne abbiam nominati ben 4: Punk, New Wave, New Romantic e Post-Punk, che per altro son sonorità che ci portiamo dietro ancora oggi. Dopo ben mezzo secolo.
La Parola a Mackay
Ci piace infine chiudere con una domanda, basata su una dichiarazione di Andy Mackay che stravolge completamente questa nostra dissertazione: «di certo non abbiamo inventato l’eclettismo, ma abbiam detto e dimostrato che il rock ‘n’ roll poteva ospitare.. beh.. praticamente qualsiasi cosa!» Insomma.. Si tratterebbe solo di Rock and Roll. Anche se molto contaminato. Beh.. Voi da che parte state!?