Arrivato su Netflix al primo giugno, RRR non è passato inosservato. Subito è piombato in testa alle classifiche di visione – complice l’algoritmo, che lo ha saggiamente spinto in testa, forse a certificare un investimento importante.
Si tratta del primo contatto importante dell’Occidente con un mercato ancora relativamente vergine come quello indiano: auto-riferito e guidato da stilemi solamente propri, è un cinema che per la prima volta sta affacciandosi alla distribuzione di massa – e come quello cinese, varrà la pena scommetterci forte.
Nello specifico, RRR è un bestione di tre ore, dramma storico carico di quello scomposto ma simpatico nazionalismo tipico dei paesi in via di sviluppo.
Soprattutto, è cinema action “vecchio stile” (come già lo era il cinese Wolf Warrior 2, primo grande assaggio dell’altro colosso asiatico); modello anni ’80 e forse pure prima, come se i supereroi non fossero mai arrivati in sala, e il paradigma di blockbuster fosse ancora DeltaForce – per l’occasione in costume, e con i balletti.
Nuova conferma (come se ne avesse bisogno) anche per S. S. Rajamouli, dopo i trionfi delle epiche Baahubali 1 e 2.
Bisognerà presto o tardi dedicare uno studio comparato esaustivo della cosiddetta scuola indie-horror, o elevated horror, come fantasiosamente etichettato.
David Robert Mitchell, Jennifer Kent, Ari Aster e Jordan Peele, solo per citare la punta dell’iceberg: cinema dell’orrore senza orrore, intimista, votato ad esplicitare metafore esistenziali o sociali attraverso un utilizzo più o meno pretestuoso del fantastico. Il retroterra è il Sundance (che scoprì Babadook), il suo pubblico chiunque non ami l’horror. Ma per i cultori, vale davvero la pena?
Jordan Peele è forse il più difficilmente esportabile del gruppo, nonché perfetta sintesi della sua peculiarità: un comico mainstream, con l’occhio più per la satira televisiva che per la violenza. Dal cinema di paura prende in prestito riferimenti iconografici e immaginario – ma il punto resta l’ironia su progressisti, classe media, razzismo, MAGA e compagnia.
La black comedy Get Out fu un gran colpo: US doveva esserne la consacrazione, ma passò relativamente sottotraccia. Val la pena recuperarlo, almeno per farsi un’idea. E’ il Romero del nuovo millennio? Scommesse aperte.
Alla pari forse del solo Nicolas Cage, Adam Sandler è il grande attore-meme della sua generazione. Il suo reale percorso artistico è ormai marginale, corollario di una seconda vita online ormai del tutto indipendente. Adam Sandler è ormai un concetto, simulacro astratto di “attore scemo” spammabile indiscriminatamente per una risata.
A differenza di Cage, Sandler non ha mai fatto molto per scrollarsi di dosso gli stereotipi sulla sua persona: Uncut Gems resta un caso isolato, e il percorso dell’attore si è sempre mosso nel perimetro della commedia. E’ lì che vanno trovati alti e bassi della sua opera: Billy Madison, Big Daddy, ovviamente Happy Gilmore.
In questa sua breve stagione “autoriale”, Sandler definì un tipo cinematografico nuovo – schmuck ebreo newyorkese dolce e di buon cuore, in antitesi con la controparte più maligna proposta da Ben Stiller. L’intera filmografia di Sandler si è sempre mossa in direzione di questo archetipo, forse mai più espresso con tale purezza come in queste prime, piccole perle.