Florence Welch s’immerge nel suo album più cupo e oscuro
La regina è tornata. Anzi, in questo caso si potrebbe forse dire “il re”. Florence Welch riporta la potenza della sua voce in uno degli anni musicalmente più pieni di sempre, e lo fa con un album estremamente ispirato che fin da subito si guadagna il massimo dei voti. L’artista, sulle scene dalla fine degli anni ’00, è ormai assurta al rango di leggenda.
E non lo ha fatto con poco, ma dall’altro di una discografia nutrita e sempre intrigante. Qui però si è superata, e non a caso c’è riuscita traendo ispirazione, come tanti (come tutti) dai sentimenti negativi e dalla voglia di rinascita derivati dalla pandemia. La riscoperta di sé, l’emancipazione femminile con echi di #MeToo, la danza e la corporeità come sempre mezzo di espressione assoluta, sono solo alcuni temi.
Ciò che in effetti colpisce fin da subito sono i toni fortemente cupi di molte canzoni, quali non li abbiamo mai veramente sentiti nell’opera dell’artista inglese. Florence sembra in effetti subire l’influenza di un certo dark pop; genere del resto incisivo specialmente all’interno della scena femminile a cavallo tra anni ’10 e anni ’20 e a ridosso del virus.
Ecco quindi canzoni eteree, sensuali ma inquietanti come Cassandra, Dream Girl Evil e Daffodil; canzoni che evitano l’ingenuità speranzosa dell’indie (termine ormai difficile da usarsi, qui) per dare adito a momenti tenebrosi e indecifrabili. Al confronto in effetti poco può il primo singolo, King, pur dall’alto della sua metafora anti-sessista.
Colpisce anche il breve inserto di Prayer Factory, che sa molto dei più recenti lavori di Mitski; mentre il brano forse portante, anche pensando alla storia di Florence e della sua musica, è Choreomania. Che non è la fissazione per il ballo, ma un vero e proprio fenomeno storico di isteria di massa che coinvolgeva, nel dopo-Medioevo, gruppi di persone che letteralmente ballavano “a morte”.
Come sempre dunque l’espressività di Florence fa della propria fragilità la sua forza e consente all’artista di pubblicare il suo album migliore certamente dai tempi di Ceremonials (2011). E rinascere nel segno dell’introspezione non deve assolutamente apparire strano per chi vive di questi tempi. Anzi: la cantante sembra aver aperto finalmente porte oltre le quali temeva di guardare.