Drive My Car è un film del 2021 di Ryūsuke Hamaguchi, già vincitore del Prix du Scénario al Festival di Cannes e ora in corsa per il premio Oscar nelle categorie miglior film, miglior film internazionale, miglior sceneggiatura non originale e per la miglior regia. Il film è un adattamento dall’omonimo racconto di Haruki Murakami, tratto dalla raccolta Uomini senza donne.
Trama
Yusuke Kafuku è un noto attore e regista, invitato ad Hiroshima per una residenza artistica. La messa in scena di Zio Vanja lo porterà ad instaurare un legame anomalo con uno degli amanti della moglie ormai defunta. L’amicizia con la sua autista si rivelerà quindi un’occasione preziosa per scandagliare le pieghe più nascoste dei suoi conflitti irrisolti.
Cast
Hidetoshi Nishijima: Yusuke Kafuku
Tôko Miura: Misaki Watari
MasakiOkada: Kōji Takatsuki
Reika Kirishima: Oto
JinDae-Young: Kon Yoon-su
Sonia Yuan: Janice Chan
Trailer
Drive My Car: recensione
Adattare le opere di Murakami per il grande schermo si rivela sempre una carta vincente. Tante pagine del grande autore giapponese prestano in effetti il fianco ad una trasposizione filmica. Non è un caso però se due dei più grandi film delle ultime stagioni non guardino al Murakami delle grandi prose, ma alla piccola letteratura di un genio che è già un classico.
Parliamo ovviamente di Burning e Drive My Car, due film che trovano la loro matrice originale in un racconto breve. Per il primo parliamo di Granai Bruciati, da L’elefante scomparso; per il secondo dell’omonimo racconto da Uomini senza donne. E senza dubbio quest’ultimo emblematico titolo ci fornisce una guida che attraversa tutta l’opera di Murakami, popolata di donne distanti, silenziose, imperscrutabili.
Misteri da ammirare mentre ci volgono la schiena, distillatrici di linfa vitale e sacerdotesse dei grandi rituali del mondo: in fondo in ogni opera di Murakami c’è un po’ di Toru Okada. Se dalla prima inquadratura Hamaguchi sembra ricollegarsi a Burning, inseguendo quel filo di Arianna che porta dritto al cuore della poetica di Murakami, in realtà la smentita arriva. Dopo 40 minuti, ma arriva.
Perché Drive My Car non è un film di Uomini senza Donne, o per lo meno non è a questo che può essere ridotto. E per fugare ogni dubbio, Hamaguchi si rivolge ad un’altra perla dalla stessa raccolta, avendone colto l’enorme potenziale cinematografico. Così il primo grande atto del film è una splendida variazione su Shahrazad. Il regista affida il ritratto della moglie del protagonista a quella ragazza che reinventava e riscopriva il suo primo amore tra le braccia di un altro uomo. Da qui si innesta una sottotrama importante dell’opera, che però lascia poi spazio al film vero e proprio. Un ampio e denso elogio del lutto e della sua elaborazione, che passa attraverso il filtro necessario del teatro, tempio di rinnovamento e costante rinascita.
Drive My Car, Čechov e Beckett
Sarebbe stata sufficiente la singola sequenza di Aspettando Godot per creare un nuovo livello di lettura in Drive My Car. Hamaguchi però si spinge oltre, dimostrando nuovamente quanto per lui il racconto di Murakami non fosse l’unico testo di riferimento. Un canovaccio, piuttosto, oppure un palinsesto sul quale l’autore interviene tracciando somme e sovrapposizioni, per grattare via la superficie e giungere alla sua vera essenza.
Probabilmente Hamaguchi ha intuito che la scelta di Murakami di porre Čechov sullo sfondo dei racconti del suo protagonista non fosse un caso. Allora lo ha portato in scena, e Zio Vanja diventa inevitabilmente un doppio delle vicende. Non sul piano degli eventi, ovviamente, dato il placido nulla accadere del capolavoro di Čechov, ma sul piano del registro, che respira nei silenzi e nel non detto.
Così tutto il film si intreccerà intorno a Zio Vanja, orchestrando il coro di personaggi intorno al workshop teatrale e imbastendo un’ampia traiettoria che muove tutti i tracciati del film verso il magnifico finale. E in un film che altro non è se non l’infaticabile ricerca delle propria verità, Zio Vanja assume davvero un ruolo da protagonista, un limpido controcanto alla storia di Yusuke Kafuku.
Una sceneggiatura memorabile
Di certo non si può dire però che Drive My Car sia a tutti gli effetti un film che viva in una desertica e alienante quiete. D’altronde Hamaguchi l’ha dimostrato ampliamente già nei presupposti. Drive My Car è un’opera di (ri)scrittura, ed è innanzitutto nella sceneggiatura che troviamo i numeri di un capolavoro annunciato.
Più di un dialogo nel film risulterà rivelatore, capace di illuminare con nuove luci questo grande teatro dell’umano. Memorabili scene a due che ci inchiodano nell’abitacolo della Saab 9000, e che richiamano alcuni momenti da Il gioco del destino e della fantasia, controparte berlinese della trionfale doppietta che ha imposto Hamaguchi come uno dei cineasti dell’anno. Dove però il primo sceglieva una narrazione a capitoli, Drive My Car trova proprio nella scrittura un continuum in cui il linguaggio cinematografico, nuovamente, si fa strumento e servo di quello teatrale.
L’ossessione per la parola è in fondo un tema ricorrente nel film, risonante nelle registrazioni della voce della moglie con cui il protagonista si esercita in lunghe sessioni per imparare le sue battute. Metallici echi della phoné beniana, che ancora sono teatro e metateatro prima che cinema. Allora Hamaguchi trova la via perfetta per rendere quella tensione di Murakami verso altre culture che l’ha reso un autore a suo modo anomalo nel panorama della letteratura orientale. Il parlato si presta quindi a diventare materia per dipingere un geniale affresco multi-linguistico, in cui si miscelano inglese, giapponese e coreano, quasi a rendere per una volta il doppiaggio in italiano un valore aggiunto.
Drive My Car, ovvero il miracolo del silenzio
Manca in effetti una lingua all’elenco, ed è in questa scelta che Hamaguchi tocca davvero il punto più alto che si potesse raggiungere. Ribalta completamente la prospettiva, rinunciando a quella sceneggiatura ipertrofica che ha espanso in ogni direzione l’originale di Murakami, e tornando davvero a quel silenzio che fa da reale colonna sonora al film.
Il monologo di Sonja, punto culminante dell’opera di Čechov, viene affidato ad un personaggio che in effetti era del tutto assente nel racconto, e che si esprime nella lingua dei segni pur essendo perfettamente in grado di sentire. In questa contraddizione si cela forse il messaggio più poetico del film, che si chiude su una scena di una bellezza impossibile, evidentemente, da vivere con la parola. E a questa scena nessun premio potrà mai rendere giustizia.