Taboo, Recensione della serie con Tom Hardy creata da Steven Knight
Sebbene sia uscita cinque anni fa, Taboo sta vivendo ora una sorta di seconda vita grazie all'arrivo su Netflix. Ecco allora la recensione del gioiello con Tom Hardy
A cinque anni di distanza dalla sua uscita, la serie Taboo sta riscoprendo una seconda vita, grazie al suo arrivo su Netflix, che ha permesso anche a chi non segue le serie in lingua originale di avvicinarsi a questo gioiello della serialità televisiva di cui si sta ancora aspettando la seconda stagione.
La serie, per il momento composta solo da otto episodi, è ideata da Steven Knight e interpretata da un colossale Tom Hardy. I due, che sono grandi amici, tornano dunque a lavorare insieme dopo il film Locke e, soprattutto, Peaky Blinders, in cui Hardy è tornato a vestire i panni di Alfie Solomons per l’ultima stagione.
Di cosa parla Taboo
James Delaney (Tom Hardy) è un uomo misterioso, schivo, che sembra portarsi impressi addosso i dieci anni passati in Africa, a stretto contatto con riti e culture ben diverse da quelle originarie.
Costretto a tornare a Londra dopo la morte del padre, James è costretto a prolungare la sua permanenza quando scopre che la Compagnia delle Indie, guidata da Stuart Strange (Jonathan Pryce), vuole mettere le mani su un suo appezzamento di terra.
Per l’uomo, che ha un rapporto problematico con la sorellastra Zilpha (Oona Chaplin), inizia così una rete di intrighi e complotti che lo spingeranno a usare le persone come pedine di un gioco di cui solo lui conosce le regole.
Taboo: la Recensione
Il One-Man-Show di Tom Hardy
Ci sono prodotti di intrattenimento che sono imprescindibili dagli interpreti principali. Come il Joker di Todd Phillips non può essere concepito senza associarlo alla straordinaria interpretazione di Joaquin Phoenix, allo stesso modo Taboo non può prescindere da Tom Hardy.
A ben guardare sembrerebbe infatti che la serie sia stata scritta quasi interamente per permettere all’attore di dar sfoggio delle proprie capacità: sebbene la trama sia ricca di intrighi e intrecci relazionali tra vari personaggi, la macchina da presa sembra in qualche modo troppo concentrata sul protagonista per permettere ad altro di distogliere l’attenzione.
In questo senso non è scorretto affermare che Taboo sia, prima di tutto, un one-man-show, una specie di monologo istrionico sulle capacità di Tom Hardy di scendere sotto le pieghe dei personaggi che interpreta, entrando nella loro epidermide come se non avesse mai fatto altro.
James Delaney è il cuore di Taboo, il magnete intorno a cui ruota ogni cosa: è la linfa vitale di una storia fatta di accordi e corruzione, dove Londra è un’entità sporca, fangosa, piena di una nebbia sottile che impedisce di vedere al di là del proprio naso. Una città che è, in qualche modo, emanazione del protagonista.
James Delaney è a sua volta sporco, corrotto, con il viso offeso da una cicatrice che ne oscura lo sguardo e lo rende simile a un demonio salito dagli angoli più oscuri dell’inferno: un personaggio che è anche lui nascosto dietro un velo, che alla sua fisicità statuaria alterna un’emotività e un’intimità segreti, che rimangono nascosti, lontano dallo sguardo dei curiosi.
È indubbio che Tom Hardy si senta a proprio agio nell’inseguire la sfida di un personaggio che si esprime attraverso rituali dimenticati mentre sfugge dagli incubi che gli strappano urla notte dopo notte: il suo è un personaggio teso, sempre sul chi va là, che sembra sul punto di cadere a pezzi e finisce invece col conquistare il mondo.
Una serie vittoriana
Va detto che, almeno all’inizio, Taboo si presenta come una serie lenta, di quelle che si prendono il proprio tempo per intessere tutti i fili di una trama che si fa via via più fitta. In un’epoca come quella attuale in cui il binge watching è diventato pressoché la norma, il primo episodio di Taboo potrebbe far storcere il naso a coloro che amano serie piene d’azioni e cadenzate da un ritmo febbrile.
Al contrario, è come ritrovarsi davanti a una lenta discesa negli inferi, dove l’oscurità sembra farsi sempre più fitta, chiudendosi intorno allo spettatore di modo che, quando si accorge di essere andato “dentro” la storia è ormai troppo tardi e non ne può più uscire.
Una sensazione acutizzata anche dalla messa in scena, che pesca a piene mani dalla tradizione più prettamente vittoriana, con cromie e filtri che rendono tutto più cupo, come se sopra ogni scena ci fosse uno strato di polvere che rende tutto ancora più agée, ma anche più affascinante.