Iron Maiden – The Number of the Beast | RECENSIONE

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The Number of the Beast: l’apoteosi degli Iron Maiden e la nascita del metal moderno

The Number of the Beast: tutti sanno che parliamo dei leggendari Iron Maiden, e del titolo del loro più celebre capolavoro (ma anche della traccia che porta lo stesso nome). Il disco esce il 22 marzo 1982, e subito fa storia. Il primo con il celeberrimo vocalist Bruce Dickinson, è anche l’album che impone la band inglese al grande pubblico, scoperchiando la grande realtà del metal britannico e aprendo una decade d’oro per il genere.

Una decade in realtà già iniziata, a voler ben guardare, un paio di anni prima: quando i Judas Priest pubblicavano il loro lavoro altrettanto leggendario, British Steel, nel 1980. E prima ancora naturalmente c’erano tutti i vari precursori, tra i quali naturalmente i Black Sabbath: i primi ad avere avuto l’intuizione del metal come equivalente in musica del cinema horror.

Gli Iron Maiden ideano però il metal moderno, tanto a livello stilistico quanto di iconografia, e lo fanno proprio in questo ciclo di otto canzoni infernali; un ciclo letteralmente infinito, dato che le ultime note di Hallowed Be Thy Name si legano alle prime di Invaders, e il percorso riparte da capo. The Number of The Beast esplicita il primo lavoro dei Maiden pensato davvero come opera compatta ed audace.

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Nel disco, come già nei due lavori precedenti ma in maniera ben più decisa, la band riprende i temi relativi a satanismo fantasy/horror con liriche esistenzialiste tratte per la maggior parte dalla fine penna del bassista Steve Harris. Ma c’è spazio anche per motivi popolari, come la citazione della serie degli anni ’60 The Prisoner, o l’epica volgare di 22 Acacia Avenue, che parla di un bordello.

Un disco che più di molti altri ha fatto la storia

Si passa poi alle gesta di popoli e conquistatori, riprese direttamente dallo stile dei Led Zeppelin e cantate con la passione degli antichi bardi in Invaders e soprattutto in Run to the Hills; quest’ultima ovviamente un cult assoluto della musica di ogni tempo. In linea di massima, per tutte le otto classiche canzoni, si ha l’impressione (ricorrente per tutti i lavori anni ’80 della band) che nessuna nota sia superflua e che ogni istante sia pregno di significato.

Abbiamo infatti un gruppo in piena ascesa, che sta appena scoprendo tutte le proprie possibilità tecniche (e non); e che più di ogni altra band (pre-Metallica) inuisce le potenzialità del genere metal se associato alla narrativa legata a tematiche ed immagini specifiche. Ed è naturalmente il caso del 666, il famoso “numero della bestia” citato nell’Apocalisse e ripreso nella saga cinematografica di Omen (che ispira Harris).

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Naturalmente è solo l’inizio, perché nei successivi album i Maiden esploreranno ogni percorso espressivo esistente; dalla mitologia alla fantascienza distopica, con la mascotte Eddie a riflettere sempre l’argomento affrontato in copertina. E però per molti versi è proprio con The Number of the Beast che tutto ha inizio: dai tratti letteralmente somatici del metal del futuro a quelli più strettamente stilistici.

Sono i Maiden ad imporre i complessi e ricercati passaggi di chitarra, i refrain fuminanti e veloci, la trattazione sagace e anche un po’ (diremmo oggi) “nerd” nelle loro composizioni. Il loro heavy metal è evidentemente epic e, nelle strutture, già chiaramente thrash. Gli elementi ci sono tutti e almeno fino alla fine degli anni ’80 e oltre terranno banco per chiunque si vorrà confrontare con il genere. The Number of the Beast è e rimane insomma un faro per un’intera concezione di questa musica.

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