Dieci anni dopo il suo ultimo film, Dario Argento torna a dirigere un film. Un thriller, un giallo anzi, Occhiali Neri, al cinema dal 24 febbraio. Quel genere che l’ha reso una colonna portante del cinema italiano e a cui ha dato moltissimo, osservandolo da vicino, facendolo suo e riscrivendone le regole.
Occhiali Neri segna dunque un ritorno, mai banale e sempre atteso. Perché se Dario Argento parla (o fa parlare le immagini), bisogna solo ascoltare e soprattutto vedere. Astenersi facilmente impressionabili, come sempre.
La genesi di questo suo ultimo e attesissimo film è molto interessante. Una sceneggiatura, scritta insieme al maestro Franco Ferrini, rimasta in un cassetto per circa un ventennio, dai primi del 2000. Finché Asia Argento, dopo averla letta, diede un’approvazione tale da far tornare suo papà Dario dietro la macchina da presa.
Ilenia Pastorelli, vista e apprezzata in Lo Chiamavano Jeeg Robot, condurrà le danze in un film al femminile. È lei infatti la protagonista, interpretando il ruolo di Diana, una escort perseguitata da un serial killer che rimane cieca dopo un terribile incidente in auto. Salva per miracolo, insieme all’unico superstite dell’altra auto, un bambino cinese di dieci anni che diverrà i suoi occhi.
Lo sguardo e la sua assenza diventano quindi coprotagonista silenzioso di questo Occhiali Neri, esattamente come accadde nel 1971 con Il Gatto a Nove Code. Un piccolo e fondamentale autocitazionismo che non è né il primo né l’ultimo presente nel film.
In Occhiali Neri, sono molteplici i topoi messi in scena che da sempre hanno contraddistinto e caratterizzato l’estetica visiva di Dario Argento. Risulta quindi doveroso procedere ad un excursus su tutta la carriera di un regista che, come detto prima, ha scritto la storia del Cinema. Sia da un lato legato al microcosmo del cinema di genere, sia da un altro più ampio.
Dario Argento: gli esordi
La carriera di Dario Argento nel mondo del cinema sboccia molto presto, lavorando a stretto contatto con Sergio Leone. Nello specifico, è fondamentale ricordare come il soggetto di C’era una volta il west porti proprio la sua firma, insieme a quelle sia del famigerato “regista western” nonché di Bernardo Bertolucci. Un affiancamento sul set che plasmerà a suo modo l’Argento regista due anni dopo, nel 1970.
Una data tonda, così come la sua età , per l’esordio del suo primo giallo, nonché primo capitolo di una trilogia ideale chiamata “degli animali“, L’Uccello dalle Piume di Cristallo. Seguiranno infatti solamente un anno dopo, il già menzionato Il Gatto a Nove Code e infine Quattro Mosche di Velluto Grigio.
Un trittico che diventa un preludio, dopo la parentesi nella commedia storica, a quello che per molti versi viene definito il suo capolavoro per eccellenza: Profondo Rosso. Un film che è divenuto una vera e propria icona, anche aiutato dalle magistrali musiche orchestrate dai Gobiln.
Un thriller potentissimo con fortissime contaminazioni horror, genere al quale si dedicherà subito dopo con un dittico (poi divenuto trilogia) dedicato alle Tre Madri: Suspiria e Inferno. Una parentesi dal grandissimo spessore che proseguirà poi con Phenomena, ma non prima di essere tornato al giallo con un sottovalutatissimo Tenebre.
Il cinema di Dario Argento
Per inquadrare e raccontare il cinema di Dario Argento bisogna tornare indietro nel tempo di un decennio, rispetto al suo esordio piumato. Più precisamente al 1963, anno in cui Mario Bava girò quello che è definito per convenzione il primo vero giallo all’italiana, La Ragazza Che Sapeva Troppo, a cui seguirà Sei Donne Per l’Assassino, dove i crismi del genere verrano delineati e ripresi anche da altri registi quali Umberto Lenzi e Sergio Martino.
Di primo acchito si può notare come i film rispondano alle regole hitchcokiane del whodonit (anglicismo per definire la domanda spettatoriale sul chi è l’assassino). In parallelo, l’assassino ha un design visuale ben preciso, caratterizzato da un impermeabile nero e l’uso di un’arma bianca, molte volte un rasoio, quasi sempre un coltello.
Scendendo ancor di più nello specifico, la violenza assume un ruolo predominante nelle scene degli omicidi, anche grazie a molteplici soggettive che ne aumentano la ferocia. Proprio da questi assunti di base, delineati già da un autore seminale come Mario Bava (chiedere a Ridley Scott), Dario Argento costruisce una visione personale rimodernandoli e dandogli un tocco personale e fondamentale per tutti gli autori a venire.
Violenza e psicologia freudiana
Così come accadde in Scream di Wes Craven, si potrebbe fare un freddo e schematico decalogo sulle regole argentiane del thriller. Tuttavia, è chiaro come questi sminuirebbe il grande lavoro dietro ai suoi film. Un lavoro che trova pieno compimento soprattutto in un lato prettamente contenutistico.
L’assassino infatti agisce sempre a causa di un trauma. Di un rimosso che ritorna e che lo fa scatenando una folle e cieca violenza. Conseguentemente, per citare Andrea Bellavita nel saggio Argento Vivo (AA.VV., Marsilio, 2008), “nel suo cinema esiste una certezza della follia” che crea di fatto uno scontro dicotomico e dialettico necessario.
Violenze di vario tipo, abusi diretti e indiretti, spersonalizzazione. Tutte caratteristiche che riaffiorano in ogni assassino e che lo portano ad agire per trovare il piacere negatogli in passato. Un piacere che rappresenta l’altra faccia di una medaglia dalla forte carica erotica. O per dirla in termini freudiani (che torneranno spesso), Eros e Thanatos.
La psicanalisi di Freud è stata illuminante per il Dario Argento regista, come da egli stesso affermato a più riprese. E chi ne mastica almeno un po’, non può che non riscontrarlo. Come detto prima, infatti, la potenza dei film argentiani, almeno da un lato meramente manifesto, si trova proprio nel riuscire a dare un background psichico e onirico all’assassino, ben delineandolo nella sua spirale di follia.
Spiega Manlio Gomarasca, critico cinematografico e fondatore di Nocturno, come questa scelta causò un vero e proprio shock nello spettatore. Assistere infatti ad un assassino bello e finito che agiva per mero sadismo, fu una vera e propria rivoluzione contenutistica che di fatto permise all’horror di confluire del giallo, almeno cerebralmente. L’assassino poteva essere chiunque, la vittima poteva essere chiunque. Nessuno è al sicuro, tutti sono in pericolo.
La follia della soggettiva
Spiega Giovanni Spagnoletti, nel saggio sopracitato, come Dario Argento sia “un autore che concentra la sua attenzione (…) alla messa inscena dell’atto delittuoso“. Per poi proseguire asserendo che nel suo film d’esordio, Argento si propone come “maestro dell’erotismo“.
Rimanendo sul piano concettuale, possiamo riprendere l’Eros e Thanatos menzionati, inserendoli di nuovo nell’assunto di una violenza a tratti pornografica. Chiunque abbia visto un film di Dario Argento avrà notato come anch’egli segua la regola del giallo per cui la soggettiva debba essere fondamentale nelle sequenze d’omicidio.
Esattamente come nel genere non-genere pornografico, seguendo il ragionamento del professor Spagnoletti, il principio d’osservazione resta molto simile. Ci troviamo di fronte ad un atto di penetrazione, alle volte più violento del normale, per mano di una mano che impugna ben salda una lama. Primissimi piani del taglio, con la macchina da presa che indugia sul dolore dei malcapitati.
Ecco dunque che la soggettiva assume una valenza necessaria e principale nel cinema argentiano. Una soggettiva che molte volte si alterna a primissimi piani e dettagli. Sequenze slegate dal contesto, apparentemente oniriche, come in Profondo Rosso. E ancora, ne Il Gatto A Nove Code, quegli intervalli sulla pupilla dell’assassino. Stacchi che di fatto aumentano la suspence.
Per non parlare dei long take in point of view de L’Uccello Dalle Piume Di Cristallo che di fatto eludono l’assassino dal suo essere parte integrante del film. Un costante fuori campo che sfuma in maniera inquietante una già pericolosa e losca figura. Come se non vi fosse un essere umano ma più un fantasma o uno spirito maligno. Una presenza oscura.
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