“Si tratta senza ombra di dubbio del miglior libro che mi riguarda, il più autentico, il più dettagliato e curato. Il più vero.”. Se è Ennio Morricone in persona a dirlo, vuol dire che dentro Inseguendo quel suono è davvero possibile ripercorrere tutte quelle traiettorie che hanno portato un giovane trombista (e non trombettista, come Morricone amava specificare) a diventare uno dei più grandi compositori della storia recente. Ma questa profonda operazione di disamina di un’intera vita, umana e artistica, Morricone non l’ha compiuta da solo: in controcampo c’è Alessandro De Rosa, che si può a tutti gli effetti considerare il suo biografo.
Il lavoro di Alessandro non si limita però ad essere quella di una seconda voce, di un contrappunto che sorregga le fili del discorso. Al contrario, è una componente attiva e viva di quest’opera che non è solo un’autobiografia. Il suo interesse ha guidato Morricone a ripercorrere le sue memorie, scavando nel profondo di questioni musicali ed esistenziali cercando le ragioni recondite di quel suono inseguito per una vita intera. Se oggi possediamo un testo così importante su Ennio Morricone, di certo gran parte del merito è suo.
Così aspettavamo di vedere il suo volto e di ascoltarlo nel ricco mosaico di personaggi che da vita ad Ennio, il documentario di Giuseppe Tornatore presentato a Venezia e che ora si prepara alla sua major release che avverrà il 17 febbraio. Aver avuto l’opportunità di scambiare qualche chiacchiera con lui non è stata semplicemente l’occasione di parlare di questo prezioso docu-film, ma anche e soprattutto di scrutare quel mondo di cui lui oggi è un custode prezioso.
E in effetti stiamo già parlando…
Ma invece tu l’hai visto?
Certo che l’ho visto. Mi sembra una buona opportunità per molte persone che non sono mai venute in contatto davvero con la storia di Ennio di scoprire qualcosa. È un’opera complementare ad altre opere, non si poteva raccontare tutto, ma ovviamente non era quello il progetto. Come ha detto lo stesso Tornatore, era un tentativo di avvicinare più persone possibili all’universo di Morricone stesso. È un documentario, e ha una potenza diversa nella nostra cultura rispetto ad un libro, ad esempio. È qualche cosa di importante che può arrivare a più persone e chissà, svegliare l’interesse in qualcuno di queste, e iniziare un percorso di studio e approfondimento, guardando anche ad altre cose che sono state fatte anche in passato.
Oggi che Morricone non c’è più pensi che opere come questa abbiano un valore di viatico? Conoscendo la tua storia so quanto sia significato l’incontro con Ennio per scoprire te stesso, le tue inclinazioni e le tue vocazioni. Per tante altre persone ha sicuramente questo valore: pensi che oggi un’opera del genere possa avere quel tipo di risonanza?
Penso possa diventarlo. Ricordo un bellissimo documentario su Stravinskij, Once at a Boarder; quando l’ho visto certo già conoscevo la musica di Stravinskij, attraverso i suoi scritti e le conversazioni con Robert Craft, ma quel documentario mi avvicinò in maniera diversa all’opera di questo grande compositore. Dipende un po’ dalla persona che viene in contatto con queste cose, a che punto si trova e dipende da quale possa essere l’iter di quella persona e di questo stesso film. Un giorno potrebbe passare in televisione e qualcuno potrebbe rimanere folgorato da qualcosa in maniera del tutto imprevedibile: in qualche modo si sconnette dalla volontà degli autori stessi. Ha una vita propria che prescinde sia dal documentario in questo caso, sia dallo stesso Morricone, e nessuno sa cosa può colpire, chi e quando.
…delle logiche di mercato
A me preoccupa un po’ il discorso della continuità. Da un lato credo che l’incontro sia una fase fondamentale, e lo rivedo molto nella mia esperienza personale, come immagino tu lo rivedi nella tua. Dall’altro lato c’è il discorso della ricettività: non so nei tempi che cambiano come possano cambiare le persone e la loro sensibilità. Mi spaventa pensare che l’eredità si possa sbriciolare, ed è per questo che il lavoro di Tornatore l’ho trovato prezioso, ma allo stesso tempo mi preoccupa pensare che possa essere un tiro a vuoto: ho visto il film in un weekend in un pieno centro a Roma, e la sala vuota per un evento dal valore così inestimabile non l’ho preso come un segnale positivo.
Non dobbiamo sottovalutare ovviamente gli esiti della pandemia. Parlando con i produttori però, nonostante ci fosse un po’ di apprensione visto le aspettative altissime, non è andato affatto male alla prima distribuzione. Il lavoro di Tornatore è effettivamente a cavallo fra il documentario e il film. A livello distributivo può essere visto come un film, ma è un documentario e spesso è anche più bello del film: quando c’è una mano sapiente è davvero grande cinema. Secondo me non c’è bisogno di essere preoccupati. Ricordo un magnifico documentario su Michelangelo di qualche anno fa, era confinato purtroppo ad una distribuzione molto piccola, quasi solo esclusivamente in piccoli cinema d’essai, perché questo genere non ha mai goduto di grande distribuzione: solitamente hanno altri iter che li porta nelle sale cinematografiche.
Non sono tanto d’accordo sul colpevolizzare la pandemia, perché i cinema si riempiono quando richiamano pubblico. Il box-office di Spiderman credo sia significativo, visto che è il sesto incasso nella storia del cinema. Di esempi al contrario ce ne sono stati diversi, in cui insuccessi di botteghino per film assolutamente meritevoli vengono “giustificati” dalla situazione sanitaria, e non credo sia sufficiente nascondersi dietro questa spiegazione: in questo senso è esemplare il caso di Nightmare Alley. Parliamo di uno dei registi più importanti della sua generazione, di un grande autore che viene sconfitto dalle logiche distributive e di mercato. Evidentemente un problema di fondo c’è, e non credo si risolva attribuendo le responsabilità della pandemia.
Certo, assolutamente, ma guardando i numeri di Ennio mi sembra che comunque stia raggiungendo volumi interessanti. Poi ovviamente certe cose vanno osservate anche a lungo termine, specie con opere di questo tipo. Da quello che so non sta andando affatto male, già sabato era uno dei tre incassi a livello nazionale. Io sono andato in una sala abbastanza piena, ho sentito di esperienze analoghe per altre persone. La cosa più bella che ho sentito però è che alla fine la gente ha applaudito: è successo anche a me.
Evidentemente l’omaggio, il tributo viene fuori: la malinconia intrinseca per un mondo che si allontana da noi nel tempo, ma non nello spirito, riesce a sferzare la sensibilità del pubblico. E questo applauso non è affatto scontato, questa partecipazione dei presenti in sala è molto importante e io confido molto in questa dimensione. In tutte le esperienze che riguardano il cinema, così come la musica, bisogna essere un po’ più pazienti: anche se non sono dei best-seller immediati, possono diventare dei long-seller, delle opere che si sedimentano.
Alessandro De Rosa e Ennio Morricone: fenomenologia di un incontro
Alessandro, vorrei tracciare un profilo, uno schizzo, per chi non conosce la tua opera da biografo: vorrei che parlassi degli albori del tuo legame con Morricone.
Partirei dall’incontro con Morricone: anche guardando proprio il documentario, vedi Gino Paoli, Quincy Jones, e una lunghissima serie di personalità, e poi vedi questo Alessandro De Rosa. Compositore, c’è scritto. Ed è lecito chiedersi, “Ma questo chi è?”. A qualcuno magari verrà la curiosità di saperne di più. Con Morricone ci siamo conosciuti nel 2005. Lui era venuto allo Spazio Oberdan per una conferenza, e io gli consegnai un disco e una lettera. A quei tempi avevo 19 anni e cercavo un maestro di composizione.
Lui si prese il disturbo di leggere la lettera e ascoltare il disco: io gli avevo chiesto di ascoltare in particolare una traccia. Il giorno dopo mi richiamò, il 10 maggio del 2005, e mi disse “Lei deve studiare composizione”, lasciandomi un massaggio in segreteria dopo aver provato a chiamarmi a casa. Lui mi richiamò, e quell’incontro lì fu il punto di partenza della nostra relazione e delle nostre conversazioni.
Inizialmente era una relazione di grande formalità, ci davamo del lei, io gli portavo dei lavori e lui mi diceva la sua. La prima volta sono andato a casa sua nel 2007, c’è sempre stato un bel dialogo molto compassato per due, tre volte all’anno, ogni anno. Poi mi sono trasferito a Roma, per studiare con dei maestri che lui mi aveva indicato, e quindi trovare Boris Porena che è stato il mio grande Maestro. Quando me ne andai in Olanda dicendo che avrei lasciato Roma, gli scrissi una lettera: lui mi richiamò commosso, dicendomi che quando l’estate sarei tornato per trovare Boris, lui ci teneva a incontrarmi per farmi leggere un suo scritto. “Sa, anche i miei inizi non sono stati facili, anche io sarei andato via, ma mi dispiace che lei vada via”.
Io gli dissi che sarei tornato sicuramente a visitarlo e quindi quell’estate lì andai a trovarlo. In quell’occasione lessi quello scritto, e lui mi chiese cosa ne pensassi. In quel momento mi è venuto in mente di scrivere “Inseguendo quel suono” con lui, un libro ambizioso che doveva coprire l’intero arco di una vita, affrontando anche questioni peculiari del comporre. Mi presi qualche giorno e poi glielo proposi, e lui mi disse “Beh, io non ho molto tempo, ma cercherò di trovarlo, e da adesso ci diamo del tu”.
Fu l’inizio dell’apertura da parte sua. I primi sei mesi per me furono di studio, per tracciare una ricerca di quello che Morricone aveva fatto, ho letto tutto quello che è stato scritto su di lui, e ho visto il documentario della BBC di cui peraltro alcuni pezzi sono nel documentario di Tornatore. Ho creato una griglia, un’idea mentale del progetto che volevo costruire, e dovevo risolvere un problema di natura compositiva in fondo: non avevo mai scritto un libro.
A metà gennaio ci siamo rivisti e questa cosa è andata avanti per 3, 4 anni, vedendoci con cadenza mensile, a volte anche bisettimanale, in alcuni momenti. Altre volte passava un mese in più per le vacanze o per i concerti. Abbiamo fatto un sacco di incontri che poi ci hanno portato a conoscerci. Quindi ciò ha portato al nostro libro, un libro in conversazione che è diventata la sua autobiografia. È lui ad aver detto che è il libro più importante che lo riguarda, in cui lui si riconosce e si sente riconosciuto, capito e anche ha potuto esprimere delle cose su di lui che potevano essere importanti.
Questo non è stato l’unico passo, perché poi siamo andati avanti a lavorare fino alla fine, e per i suoi 90 anni durante l’estate abbiamo registrato un sacco di ore nuove di conversazione, conoscendoci ormai bene, registrandole bene con il microfono da radio. Tre di queste ore sono disponibili su Amazon Audible, sotto il titolo “Io e Ennio Morricone”. Una chiacchierata tra me e Ennio a cui chiunque può partecipare dal divano di casa sua osservando un processo, per certi versi, simile a quello che ha portato alla nascita del nostro libro. Manca certo quel grado di approfondimento musicale, ma c’è più sintesi. Avevamo bisogno di fare una cosa diversa, per un altro tipo di pubblico, e abbiamo deciso di toccare altre cose.
Ho riassunto un po’ tutti questi anni, e oltre a queste pubblicazioni c’è molto di più: la mia vita ovviamente è cambiata, è stata arricchita, mi sono trovato a conoscere meglio me stesso, e questo lo devo ad Ennio Morricone e Boris Porena. Posso dire di aver sviluppato una parte di me molto importante grazie a loro, e mai mi fermerò a lavorare in questa direzione, perché non si finisce mai di scoprirsi meglio.
Seminare e raccogliere
Di tutti questi anni di conversazione e di questa eredità, che è una sorta di parola chiave, qual è stato il tuo raccolto?
Nella prefazione di “Inseguendo quel suono” Morricone lui stesso parla del suo di raccolto. È stato un cambio di prospettiva nella sua vita, di rivederla da un certo punto di vista, e non lo dico con presunzione, lo dico perché è successo. Ho tante registrazioni in cui ne parliamo, perché chiaramente ci siamo incuriositi per questa cosa che è successa e di cui forse si è reso conto dopo. Ennio Morricone era un grande lavoratore, era preoccupato di andare sempre avanti, poi arrivi ad un certo punto in cui la vita, se hai la fortuna, ti crea lo spazio per fermarti un attimo, e riprendere contatto con te stesso. Incontri qualcuno che ti fa delle domande, e tu sei costretto a chiederti cosa sia successo in tutti questi anni.
È il senso del tempo, ti ricordi la risposta di Noodles alla domanda “Cosa hai fatto tutti questi anni?”, e lui risponde “Sono andato a letto presto”. E anche per me è stato questo: un’opportunità di ribaltare la prospettiva. Ovviamente ho avuto l’occasione di approfondire alcuni aspetti musicali, avevo un’altra sicurezza nel seguire certi atteggiamenti, stando in prossimità di una persona con tanta esperienza. Non posso definirlo certo il mio Maestro, ma questa prossimità è qualche cosa che ti da diversità, è un confronto generazionale.
Io ci ho sempre creduto nel confronto con persone con molti più anni ed esperienza di me: ho sempre trovato prospettiva in questi discorsi, ho sempre trovato un’esperienza, che può essere anche terribilmente negativa, per cui ho accumulato anche delle scorie di altre persone. Quando ci apre ad altre persone ci si assume anche il rischio ovviamente, ma si aprono porte continuamente, e lui è stato senza dubbio un tassello fondamentale della mia esistenza.
A proposito di Boris Porena, suo compagno di studi degli anni della classe di Petrassi, vorrei parlare con te di un momento particolarmente emozionante del documentario. È il momento in cui lui stesso si commuove, e in controcampo c’è Morricone che, allo stesso modo, si emoziona. Si parla di una lettera, che Porena scrisse a Morricone per scusarsi per aver frainteso il suo lavoro, per non averne avuto la giusta considerazione. “Solo un uomo che conosce profondamente la composizione può aver scritto questa musica”. Così disse a proposito di C’era una volta in America, e in un certo senso questo è il momento più bello di riconciliazione tra Morricone e un mondo accademico che gli è rimasto sempre freddo e distante.
È molto importante per me questo momento a cui fai riferimento, perché ho visto mettersi in equilibrio queste due figure che erano così cruciali dentro di me. Mi ero reso conto di tante ingiustizie subite da Morricone, ma anche allo stesso tempo di tanti suoi atteggiamenti che potevano essere fraintesi dagli altri. In generale però il contesto non era favorevole per Morricone. Il Conservatorio, specie il corso di composizione, erano di un’estrazione sociale diversa da quella di Ennio. Quindi si vanno a creare dei conflitti non tanto tra Morricone e Boris, quanto tra Morricone e un mondo culturale, un ambiente, che lo guarda con sospetto. Boris ha però sempre riconosciuto l’importanza di C’era una volta in America, così come è sempre rimasto affascinato dal Mosé, miniserie televisiva del 1974.
Boris ad un certo punto ha quindi ribaltato anche le sue di prospettive, cogliendo la grande sensibilità di Morricone nei confronti del cinema. Spero quindi che Boris emerga per quello che è, come una personalità sempre pronta a rimodulare le sue posizioni. In fondo anche lui, come Ennio, era vittima di un contesto: per fortuna entrambi se ne sono resi conto in tempo. E a me resta la fortuna di aver conosciuto questi grandi personaggi, disposti a tornare continuamente sui propri passi. Mi ricordo anche i giorni a casa di Boris ad ascoltare tanta musica di Morricone, anche e soprattutto musica assoluta: i concerti per orchestra, Gestazione, e scoprendo cose abbiamo aggiunto ulteriori riflessioni. Questo è, ancora, il tipo di rapporto che si crea con i grandi: una curiosità continua che deve portare all’incessante volontà di mettersi in discussione.
Morricone e Tornatore, Ennio e Peppuccio
Per quanto riguarda il lavoro di Tornatore nello specifico, vorrei sapere come è nato. L’impressione che si può avere è che sia un’opera postuma, circoscritta all’omaggio. In realtà è un’opera di grande estensione temporale, e che ha radici molto lontane. È un’eredità multipla, stratificata, ed è un progetto capitale.
Già nelle ultime sessioni di Inseguendo quel suono, nel 2015, lui mi parlò della sua intenzione. Era difficile trovare dei produttori: è difficile anche per i grandi riuscire a portare a termine tutti i progetti. Fortunatamente si sono configurate delle situazioni che hanno reso possibile, grazie ai due produttori che hanno preso iniziativa esponendosi anche in prima persona. Riuscirono a mettere insieme le cose per partire, e per portarle a termine. Così il tutto prese una dimensione operativa, e si stavano iniziando a compiere dei passi importanti. C’era bisogno che anche lui facesse le sue interviste, ed Ennio mi disse “Se Tornatore parte con questa cosa, tu ci devi essere: la giriamo sul terrazzo di casa mia”.
Era un po’ spaventato dal fatto che gli avrebbero invaso la casa, e io ovviamente lo tranquillizzavo. Poi vedendo il montato finale mi sono reso conto che lui non era pienamente a conoscenza del progetto. Lui mi diceva degli avanzamenti che lo riguardavano, ma delle tante scene che riguardano altre persone era a conoscenza fino ad un certo punto. Mi raccontò quando andarono a filmarlo, dell’idea di come sarebbe iniziato questo documentario. Ennio era a conoscenza di queste cose qui, e quando Tornatore il 31 dicembre 2017 mi chiamò per la mia testimonianza, andai a Roma per registrare.
Fu un’intervista lunghissima: a quanto mi dicono, è rimasta la più lunga fino alla fine, più di 4 ore di intervista. Fatto sta che è stato molto bello, sembrava un po’ di essere in Una pura formalità; io però la memoria ce l’avevo buona, a differenza del personaggio di Depardieu, anche se mi sentivo torchiato da Giuseppe Tornatore esattamente come fece Polanski. Si creò un bellissimo dialogo e alla fine lui mi dice “Sei stato bravissimo”: è stato molto emozionante. Lui aveva letto il libro in anteprima, così come aveva anche ascoltato il documentario radiofonico che ho fatto per la RSI e il podcast per Amazon, quindi conosceva bene il lavoro che avevo fatto insieme a Morricone.
Per dirla in soldoni, Morricone era a conoscenza del lavoro. Quando io finì la testimonianza per Tornatore, lui voleva che io gli raccontassi assolutamente che cosa mi avesse chiesto: “Mi raccomando, parla bene di me!”. Ho detto anche qualche suo difettuccio, ma con grande affetto. Poi sì, certo che arriva quasi come un’opera postuma, ma in realtà ha una gestazione molto lunga, dovuta anche ai fatti pandemici. Anche tutta la complessità, tra i diritti e i materiali: sostenere una produzione del genere nel tempo, creare questa convergenza tra tutti questi testimoni. Il cast completo è sterminato.
Io credo che questa sia l’unica dimensione in cui Morricone possa essere restituito in tutta la sua complessità, quasi camaleontica: lo diceva Bertolucci, che esistono tanti Morricone. Il film trova nella coralità la dimensione più funzionale, secondo me, a raccontare Ennio: sei d’accordo con questa visione?
Io sono d’accordo in parte, nel senso che ovviamente il racconto corale ci dà una dimensione necessaria, polifonica, che proviene da vari punti di vista. Il modo in cui le altre persone lo vedono è essenziale, ma non si può prescindere dalla sua voce. Ci vuole il contatto diretto, se si ha la fortuna di averlo, e queste due operazioni non possono dividersi l’una dall’altra. È un contrasto importante, perché anche questo genera informazione. Si possono capire tante cose da questi confronti, anche perché molte volte le cose che ci raccontiamo non sono sempre le cose come sono successe, oppure la nostra percezione ha influito molto su quello che è successo, su quello che noi ricordiamo.
Il parere degli altri va sempre ricondotto alla voce di Morricone: questo è stato essenziale per me, e ovviamente anche per Tornatore. Passando anni insieme, cogli le vibrazioni del suo modo di essere, impari il suo modo di lavorare. Il contatto restituisce una profondità che trovi solo in questa esperienza dell’altro. Da solo non basta, certo, se vuoi andare davvero a fondo, ma anche per capire fuori cosa sia successo.
Ci sono delle reazioni inaspettate: considera ad esempio i tanti musicisti rock che si sono appropriati della sua musica. Un conto è se è Morricone in persona a dire di essere contento che lo facciano, un altro discorso è capire come mai i Metallica lo facciano, e le simmetrie e le differenze con i Dire Straits, o con Bruce Springsteen. Ognuno ha la sua peculiarità, ed è un’occasione di noi per riflettere, cercando di mettere insieme le informazioni, collegando e sovrapponendo situazioni che restituiscono un’immagine sempre più ampia e dettagliata, cogliendo le cause dietro gli effetti.
Non c’è un modo solo di raccontare: si può essere sordi parlando con 150 persone o con una persona sola, e si può capire tutto parlando con tante persone o con una sola persona. Si creano tanti meccanismi nella diffusione e nella ricezione di un messaggio, ed entriamo in un discorso che non ha a che fare solo con la memoria. È un fatto incredibilmente misterioso e ricco, dove l’empatia più profonda gioca un meccanismo incredibile nella comprensione dell’altro.
Il metronomo che buca il silenzio
Già prima ne accennavamo, quindi vorrei entrare nello specifico di certe questioni filmiche. È un documentario in cui Tornatore ha dispiegato un montaggio magnifico. Ciò che si vede, esiste nel montaggio: certi dialoghi impossibili, certi campi e controcampi fittizi. Sei d’accordo con me però che Ennio non è grande cinema solo nel montaggio, ma anche nella sequenza d’apertura. L’intuizione del metronomo, le scene strappate all’intima quotidianità di una persona che non ne avrebbe mai fatto un fatto pubblico. Questa ouverture è qualcosa di a sé, un a parte. Qual è per te il valore di questo silenzio che apre un film che invece è un film di musica?
È un’immagine fortissima. Certo, ci sono delle immagini importantissime del passato: Ennio ragazzino, giovane balilla che suona la tromba…e che fortuna che l’istituto Luce filmò proprio lui! Quell’immagine però resta la mia preferita, se posso fare una mia personale considerazione. È l’elemento di partenza, questo metronomo che crea un ritmo, e il ritmo è una legge di rigore e di tempo. La regola della macchina umana, del corpo, che per Ennio era molto importante: la flessibilità, la forza, la sua capacità fisica.
Il controllo del corpo vuol dire controllo del tempo: per un compositore sono fatti estremamente importanti, e per Morricone ancora di più. Con quelle poche immagini, con quei pochi frammenti, crei lo spazio per tutta la progressione del film, e se fosse continuato così, che roba! Lui era molto riservato su certe questioni: specie sul proprio corpo, c’era grande pudore. Che lui si sia prestato parla ancora una volta dell’importanza della relazione in Morricone, ma ancora di più, della sperimentazione. Un signore anziano che sfida se stesso di fronte alla telecamera per il suo amico Giuseppe Tornatore è un fatto straordinario. Lo trovo estremamente commovente, oltre il semplice mettersi in gioco.
Quando io ho visto per la prima volta quella clip, mi sembrava quasi una bestemmia in chiesa. Che forza metterlo così, che forza che lui si sia fatto registrare, che forza che noi lo possiamo vedere. Io però non riesco a disgiungermi anche dallo sguardo Morricone. Sono convinto che se lui l’avesse vista probabilmente si sarebbe infastidito e vergognato, ma avrebbe riconosciuto l’importanza di quella sequenza. E per questo per me è il punto più bello, e mi è piaciuto vederlo realizzato. È tutto simbolico in quell’inizio, sacro e sacrilego.
Ancora raccogliere
Come racconteremo Morricone dopo questo film? Come si riconfigura la sua eredità dopo Ennio?
Non credo che ci sia un prima e un dopo, e non perché quest’opera non sia importante. Allo stesso tempo però non è un’opera definitiva, è un’apertura, una possibilità. Come dicevamo all’inizio, è un’opera che arriverà a tante persone, anche in maniera inaspettata. Qualcuno ci inciamperà in maniera imprevedibile, e ci sarà quell’inizio di pensiero che porterà verso la conoscenza di Morricone e speriamo anche della musica in generale, perché è tutto connesso. La possibilità della memoria e della riscoperta, nella continua ricerca di qualcosa di nuovo compiendo una propria ricerca.
In questo senso, nell’eredità di Morricone è un lavoro molto importante che resterà nel tempo. Auguro lungo vita a quest’opera e ciò che significa: un tributo, un omaggio, da un amico ad un amico. Io lo leggo così. E gli applausi alla fine, mi dicono che questo scambio di affetto si percepisce, ed è forse la cosa più importante.