Michael Bay è una delle figure più discusse nell’ambiente del cinema mainstream americano. Il regista ha da subito incontrato il favore del grande pubblico, mentre il suo rapporto con la critica è stato (ed è tuttora) molto più complesso.
Di fatto l’opinione si è polarizzata su due posizioni sostanzialmente inconciliabili. I sostenitori esaltano il suo stile spettacolare, ipercinetico e l’azione costante dei suoi film, mentre i detrattori ne evidenziano gli eccessi visivi, uno stile certo non particolarmente raffinato e una banalità di fondo dei suoi film.
Che il suo stile abbia avuto un successo di pubblico innegabile è sotto gli occhi di tutti. Fare film per il grande pubblico non è un delitto (sia chiaro) e Bay ha ogni ragione sotto questo punto di vista.
Ma se vogliamo smarcarci dall’equazione guadagno uguale gran film, dobbiamo fare un passo oltre e cercare di indagare sul suo cinema.
Ecco una serie di elementi su cui concentrarsi nell’analizzare il cinema di Michael Bay. Un’operazione necessaria per capire il suo universo, ma anche per coglierne i limiti e i (grossi) difetti. Nel frattempo vi ricordiamo che stasera alle 21.20 su Italia 1 c’è Transformers!
1) Il cinema di Michael Bay è ripetitivo
Uno dei problemi (qualcuno direbbe caratteristiche) del cinema di Bay è la ripetitività . All’interno dei suoi film sembra esserci sempre lo stesso schema, che il regista applica pedissequamente nel girare le scene. Se è normale che un film abbia una struttura “solida” su cui basarsi, nelle sue opere rasenta l’eccesso.
La maggior parte delle scene si aprono con una visuale aerea (ripresa dall’elicottero che gira in tondo) dell’ambiente esterno. Inizia poi il dialogo, serratissimo, con campi e controcampi al limite della nausea e poi (finalmente, direbbe qualcuno) c’è l’azione.
Tutto è ipersemplificato, spesso con un uso sgrammaticato (ma questo lo vedremo dopo) della macchina da presa. La ricerca costante della velocità alle volte rende queste scene quasi incomprensibili da un punto di vista visivo-geografico, impedendoci di ricreare mentalmente la disposizione dei personaggi (e rendendo tutto più caotico).
2) Il patriottismo nauseante
Michael Bay ha legato a lungo il suo nome al produttore Jerry Bruckheimer, di nota fede repubblicana. Il patriottismo piuttosto evidente (che raggiunge livelli totali in Pearl Harbour) è sicuramente uno dei punti più difficili da digerire, soprattutto per un pubblico europeo più critico.
Sebbene i suoi film non trattino quasi mai direttamente questioni politiche, un certo tipo di retorica è molto spesso evidente (e, onestamente, nauseante). In film di certo non ricchi di spunti su cui ragionare, questi diventano ancora più evidenti e fastidiosi.
3) Magniloquenza (e vuotezza) di Michael Bay
Bay ha fatto della grandezza e dell’eccesso una cifra stilistica facilmente riconoscibile. Quello che da molti è stato definito Bayhem altro non è che una ricerca dell’eccesso visivo ad ogni costo, riempiendo il campo della macchina da presa con ogni oggetto (più grosso è, meglio è) possibile.
Questa ossessione per il dinamismo e la spettacolarizzazione di qualsiasi cosa riesce a stregare grandi pubblici per oltre 2 ore, mentre ad un occhio più critico risulta stucchevole già dopo pochi minuti.
Molti hanno commentato come Bay abbia tratto questo (ed altro) dalla cinematografia d’azione di Hong Kong. Se davvero è questo il caso (non mettiamo in dubbio abbia visto qualche film, almeno di John Woo) dimostra di aver capito ben poco di quel cinema, riproducendone la concitata azione senza alcuna grazia o ricercatezza.
Della ricerca visiva e delle splendide coreografie di Hong Kong non c’è minimamente traccia.
Il fatto stesso di riempire fino all’orlo l’inquadratura sembra a volte essere un tentativo di nascondere il vuoto abissale più concreto dei suoi film, che dietro le esplosioni e le scene d’azione (spesso mal dirette) ha veramente poco da dire.