Nato nel 1932, François Truffaut ha preso il proprio cognome dall’architetto Roland Truffaut, suo tutore legale. La madre, allora diciottenne, desiderava abortire, ma la famiglia militare cattolica e conservatrice da cui proveniva si oppose. La ragazza fu mandata in convitto e il piccolo affidato a una levatrice e poi alla nonna. Quest’ultima lo appassionò alla letteratura.
Siccome Truffaut era di salute cagionevole, infatti, la nonna decise di non inviarlo a scuola per insegnargli a leggere e scrivere di persona. Una volta cresciuto, il ragazzo si iscrisse al liceo Rollin, in cui, però, si sentiva un estraneo. Quando fallì gli esami del sesto anno, dovette cambiare varie scuole, a causa soprattutto della sua condotta indisciplinata.
In uno degli istituti, Truffaut conobbe Robert Lachenay, con cui, in virtù della forte passione per il cinema che li legava, avrebbe collaborato al suo primo lungometraggio. Prima, però, del regista, dopo l’ennesima bociatura François Truffaut lasciò la scuola e lavorò come magazziniere, ma perse quasi subito il lavoro. Quindi fondò un cineclub e conobbe una figura importantissima per lui: André Bazin.
Oltre a rimuoverlo dal riformatorio in cui venne mandato dal padre, Bazin si prese cura del giovane cineasta, divenendo lui stesso una figura paterna. Grazie a lui, François Truffaut scrive alcuni articoli per i Cahiers du cinéma, entrando a far parte della schiera di futuri registi che circondavano Bazin. Ecco i nomi: Claude Chabrol, Jacques Rivette, Jacques Demy, Éric Rohmer, Jean-Luc Godard.
Con loro il regista fonderà il movimento della Nouvelle Vague, che ha come pilastro l’articolo Su una certa tendenza del cinema francese (1954). In particolare, questo prende le distanze dal cinema francese contemporaneo, reo di copiare pedissequamente i progetti americani. Vediamo quindi ora più da vicino cinque opere di Truffaut, una per ogni decennio della sua vita.
1) I quattrocento colpi (1959)
Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) è un bambino molto complicato. I genitori lo trascurano, la scuola lo punisce troppo severamente e la società lo guarda con indifferenza. Dopo che il severo professore di grammatica (Guy Decomble) lo punisce per l’ennesima volta, il ragazzino decide di non tornare più a scuola. Ma la mancanza di disciplina in città si paga cara…
I quattrocento colpi è l’indimenticabileesordio alla regia di François Truffaut, che a 27 anni mette in scena uno dei film-manifesto della Nouvelle Vague. Il regista si presenta al mondo intero tramite il proprio alter-ego Antoine Doinel, un bambino che è vittima di un sistema di disciplina ormai antiquato. Antoine apparirà poi in altre quattro opere fino al 1978, sempre interpretato da un magistrale Jean-Pierre Léaud.
Il tema dell’educazione è sin da subito presentato come cardine della filmografia del regista, che nel film in esame ne mostra le contraddizioni. Il primo riguarda il docente di grammatica, che punisce crudelmente il bambino ma si rivolge a lui affettuosamente quando apprende della finta morte della madre. Quest’ultima, invece, che da sempre lo maltratta, cerca di entrarci in confidenza quando Antoine la coglie con un amante.
Dalla scelta del tema traspare l’influenza del mediometraggio Zero in condotta (1933) di Jean Vigo, non a caso padre putativo della Nouvelle Vague. Inoltre, la caratterizzazione di Antoine richiama il cinema americano del decennio, focalizzato sulle storie di giovani ribelli e socialmente incompresi. Antoine beve, fuma e prova a sperimentare la sessualità, comportandosi come quegli adulti da cui che non intendono accettarlo.
Stilisticamente, François Truffaut incupisce ulteriormente il grigiore di una Parigi avvolta dalla nebbia con il bianco e nero. Concorre alla realizzazione della maestosa fotografiaHenri Decaë, le cui doti hanno accompagnato il cinema noir di Jean-Pierre Melville. Inoltre, Truffaut predilige la camera fissa e riflessiva per lasciare spazio a una messa in scena ordinata e teatrale. Chiude il film lo sguardo in macchina finale, desunto dal cinema di Ingmar Bergman.
2) Jules e Jim (1962)
L’austriaco Jules (Oskar Werner) e il francese Jim (Henri Serre) sono legati da una profonda amicizia, che tocca sia la sfera sentimentale sia quella carnale. Un giorno, i due conoscono la bella Catherine (Jeanne Moreau), di cui entrambi si innamorano. Quando Jules dichiara a Jim di voler sposare la ragazza, questi soffoca i propri sentimenti, e parte per servire in guerra. Ma al suo ritorno, la situazione è cambiata…
Dopo il capolavoro d’esordio e Tirate sul pianista (1960), François Truffaut firma un’altra indimenticabile pietra miliare della Nouvelle Vague. Alla sua uscita, come di consueto per i film del movimento, Jules e Jim fece molto scalpore per la storia narrata. Come suggerito dalla trama, infatti, l’opera narra il ménage à trois che destabilizza i rapporti tra i tre protagonisti. In un clima ancora molto lontano dalle battaglie femministe e dalla rivoluzione sessuale, tale tema rappresentava ancora un tabù.
La vera protagonista del film, in realtà, è proprio Catherine, interpretata splendidamente da Jeanne Moreau, uno dei volti della Nouvelle Vague. Con il proprio desiderio di emancipazione e il tedio esistenziale causato da una società incapace di amare, Catherine è diventata un simbolo per le donne. François Truffaut ha però dichiarato che il film mostra l’impossibilità di qualsiasi combinazione amorosa al di fuori della coppia. Ecco quindi spiegato il titolo Jules e Jim, la cui amicizia, messa alla prova, non fa altro che rafforzarsi.
Stilisticamente, François Truffaut intende affiancare alla suggestione narrativa la perfezione formale. Realizzando una messa in scena a tratti barocca e a tratti minimale, abbonda con le inquadrature fisse per evidenziare la prossemica degli attori. Inoltre, il regista impiega frequenti trovate sperimentali, dal fermo immagine di Catherine alla sovrapposizione del suo volto all’immagine nelle carrellate. La scena più memorabile del film è senza dubbio quella della corsa al cavalcavia, ripresa e citata come emblema della Nouvelle Vague stessa.
La fotografia è stata curata da Raoul Coutard, collaboratore storico di Godard che ha rinnovato la propria assistenza al regista dopo Tirate al pianista. I virtuosismi di Coutard sono stati poi rimarcati dallo splendido montaggio di Claudine Bouché. Infine, Georges Delerue offre il proprio imponente commento musicale, il più lungo registrato da un film di Truffaut, con cui rinnoverà il rapporto.
3) Fahrenheit 451 (1966)
Per impedire alle persone di leggere libri, rei di causare loro infelicità, è stato istituito un corpo di pompiere deputato al loro incenerimento. Il titolo del film richiama infatti la temperatura che la carta dei libri deve raggiungere per incendiarsi. Guy Montag (Oskar Werner) è uno dei migliori pompieri e sta per ricevere una promozione. Ma la conoscenza di un’insegnante (Julie Christie) stravolgerà per sempre la sua vita…
Tratto dall’omonimo romanzo socio-distopico di Ray Bradbury, Fahrenheit 451 è la prima opera a colori e in lingua inglese del regista. La produzione inglese affidò a Truffaut un cospicuo budget e la Universal distribuì il film nel mercato internazionale. Il risultato è una pellicola molto spettacolare, pur fortemente sociologica e introspettiva. Infatti, Fahrenheit 451 è un’esplicita critica al medium televisivo e alla vuotezza dei contenuti proposti.
La pira dei libri, poi, richiama immediatamente il nazismo, come pure le uniformi nere dei pompieri e il saluto che si scambiano. Il film ne mostra anche le contraddizioni: i pompieri appiccano gli incendi, bruciando tutti i libri, tra cui è incluso il Mein Kampf. L’evento sembra mostrare concretamente l’autodistruzione della società di cui lo steso Montag parla una volta che comincia a leggere. Non è un caso che egli inizi da David Copperfield, romanzo sulla miseria generata dalla rivoluzione industriale.
Ma la critica sociale mossa dal regista risiede anche nello stile. Il film, infatti, si apre con i titoli di testa enunciati da una voce femminile come fossero una pubblicità, perfettamente in linea con un mondo in cui i libri sono banditi. Subito dopo, invece, una donna avverte un uomo di un imminente raid dei pompieri, con uno zoom ossessivo e discontinuo. Alle immagini vengono applicati dei filtri colorati sempre diversi tra di loro. La sperimentazione stilistica ricorda molto il cinema di Godard.
Trattandosi del primo film a colori di François Truffaut, non stupisce che egli spinga molto sui virtuosismi cromatici. Inoltre, coadiuvato dalla splendida fotografia di Nicolas Roeg, in seguito grande regista, Truffaut costruisce la tensione anche con le taglienti geometrie degli spazi. Oltre poi al montaggio di Thom Noble, un ulteriore elementi di tensione risiede nella colonna sonora di Bernard Hermann, noto per aver composto molte della colonne sonore di Alfred Hitchcock. Quest’ultimo, in particolare, è molto omaggiato da Truffaut, amante delle sue opere.
4) Effetto notte (1973)
Nella città di Nizza il set del film Vi presento Pamela procede con grandi difficoltà. Un incidente ha bruciato la cellulosa di una scena in piazza appena girata, quindi il regista Fernand (François Truffaut) deve ripetere i ciak. Molti attori sono provati dalla propria vita privata, chi da situazioni sentimentali più o meno clandestine e chi dalla vecchiaia. Riuscirà Fernand a portare a termine il progetto in tempo?
Effetto notte, in inglese Day for Night e in originale La Nuit américaine, riprende l’omonimo filtro ottico impiegato anche nel film. Esso serve per simulare che le scene esterne girate di giorno siano ambientate di notte. Il tecnicismo che già traspare dal titolo annuncia il tono del film, a tutti gli effetti un backstage poco romanzato. Pur narrando la storia e gli intrecci tra i vari personaggi, l’opera è sospesa tra documentario e finzione.
Queste due realtà, per quanto ossimoriche, sono fuse da François Truffaut nella sua dichiarazione d’amore al cinema, scomposto in tecnica e sentimenti. Effetto notte esplicita senza filtri lo stress cui è sottoposto sul set un regista, al quale vengono “rivolte tutte le domande”. Gli attori, invece, rallentano la produzione, abbandonando le riprese o chiudendosi con i propri drammi in camerino. Nonostante le difficoltà, però, la fine del set porta con sé un’incredibile nostalgia per cui tutti si danno appuntamento a quello successivo.
Truffaut dirige con maestria se stesso, abbondando con i long take e inquadrature fisse molto lunghe. I due espedienti devono sottolineare le interminabili ore di riprese che contraddistinguono i set, oltre alla tensione legata agli imprevisti. Inoltre, il long take rende stilisticamente il concitato caos di maestranze che concorre alla realizzazione del film.
Vincitore dell’Oscar al miglior film straniero, Effetto notte poggia anche su interpretazioni indimenticabili. Innanzitutto bisogna ricordare l’italiana Valentina Cortese nel ruolo dell’attrice decaduta e alcolizzata Séverine. Torna anche Jean-Pierre Léaud nel ruolo del tormentato e infantile Alphonse.
5) L’ultimo metrò(1980)
La Parigi del 1942 è assediata dalle truppe naziste, che impone ai francesi, tra le tante vessazioni, un insindacabile coprifuoco notturno. Quindi, per i cittadini diventa importante la corsa all'”ultimo metrò” per tornare a casa. Date le fredde temperature invernali, le persone si comprimevano nei teatri per scaldarsi. Ed è proprio a teatro che prende vita la vicenda narrata dal film.
Lucas Steiner (Heinz Bennent) ha dovuto abbandonare la regia del (fantomatico) dramma norvegese La scomparsa per sfuggire ai nazisti perché ebreo. La moglie Marion (Catherine Deneuve) prende quindi le redini della compagna, a cui si è aggiunto un nuovo attore, Bernard (Gérard Depardieu). L’impulsività di costui dopo le critiche allo spettacolo farà precipitare la situazione.
L’ultimo metrò è il secondo capitolo di una trilogia dedicata da François Truffaut allo spettacolo, iniziata con Effetto notte. Il terzo capitolo, che avrebbe dovuto riguardare un musical, non è mai stato realizzato per la morte prematura del regista del 1984. Come nel precedente, anche in L’ultimo metrò la vicenda riguarda il backstage di un’opera di finzione, ma ne mostra anche le conseguenze.
Oltre allo studio psicologico dei personaggi, l’ambientazione nel periodo nazista permette al regista di affrontare il tema della discriminazione. Le origini ebraiche di Lucas, costretto in cattività nel sottosuolo del teatro, si uniscono all’omosessualità di alcuni membri del cast. Questi, trattati con rispetto da Truffaut, versano nelle stesse condizioni degli ebrei: se i nazisti li scoprissero, li eliminerebbero senza pietà. L’arte diventa quindi l’unica fuga dal totalitarismo e, ancora, dalla propria vita privata.
Per enfatizzare il sentimento di fuga, François Truffaut si avvale grandemente della profondità di campo. Infatti, molte scene appaiono incorniciate dentro una porta aperta o dalla prospettiva dello spettatore (collocato sugli spalti del teatro). Il film presenta numerosissimi punti di fuga, come molte le sottotrame mostrate in 133 minuti. Infine, Truffaut usa suggestivamente il colore, in particolare l’ocra e il rosso. Quest’ultimo, in particolare, riprende le varie passioni amorose e la bandiera nazista, concettualmente accostate e contrapposte.