Una figura che sembra essere stata trasportata nella modernità da un’epoca passata, e trovandosi faccia a faccia con la realtà di oggi sembra non potere far a meno di rimpiangere quegli anni andati. Anni di un’era mitica, quella di un’America glorificata, giovane e ed entusiasta.
Gli anni ’10 sono invece anni di brutale velocità , tremanti di ansia sociale e colmi di insicurezza. Ecco allora che Elizabeth Grant indovina la giusta risposta a un’era di incertezze, re-inventandosi in questo personaggio un po’ glam un po’ gothic, un po’ vamp e un po’ kitsch, che troverebbe posto tranquillamente in un film di Tim Burton ma appartiene più all’era di Ed Wood.
In Born to Die, già il titolo tutto un programma, Lana Del Rey contrasta i suoni digitali e multicolori degli anni ’10 con una patina di pop ombroso e sofferente, fatto di atmosfere lente, fumose e malinconiche. La musica prende dal trip hop anni ’90 e dal pop barocco d’altri tempi, ma lo stile interpretativo unico passa per la voce sensuale ma anche inconsolabile che tutti abbiamo ormai imparato a conoscere.
Dove tutto è iniziato per la regina pop della solitudine
Born to Die conquista con brani che sono ormai classici, come Videogames e Summertime Sadness, imponendo un modello di cantautrice femminile in un’epoca nella quale tra una Iggy Azalea e una St. Vincent non sembrano esserci ponti. Lana è proprio quel punto d’incontro tra un pop sempre più maturo e disincatato e un cantautorato che anela a raggiungere finalmente le masse.
Un fantasma che appare e scompare in un angolo, un volto in un ritratto antico e in bianco e nero, uno spettro in The Haunting di Robert Wise. La cantante si impone come figura nera e adombrata in un mondo forzatamente colorato. Fuori posto, così come fuori posto si sentono molti dei suoi ascoltatori e ascoltatrici.
Quel che questo suo primo album (secondo, in realtà ) cattura è proprio la delicatezza e la peculiarità caratteriale di una artista che sogna, più che guardare o agire, fuori dagli schemi. Un sogno continuo ed interminabile, che di canzone in canzone regala ombre, sagome tra la nebbia, pensieri sfuggenti e aneliti filosofici.
La produzione ricercata e quasi fiabesca del disco, con le fini costruzioni orchestrali a contrastare con la ritmica stanca e polverosa, contribuiscono alla costruzione di un mito che di “dark” e “sad” ha tutto e anche di più, anni prima di Billie Eilish e dello sdoganamento del mal di vivere nelle canzoni da classifica. Con questo album indimenticabile Lana Del Rey, vecchia e giovane insieme, anticipa e costruisce il suo stesso tempo.