Scriveva il filosofo danese Kirkegaard, in riferimento all’uomo, che “La libertà di scelta non rappresenta la sua grandezza ma il suo permanente dramma“. Una brutta verità , una bella finzione. Neo non sembra avere troppi dubbi quando, in Matrix, si trova di fronte alle due pillole. La blu, per tornare alla sua meravigliosa finzione. La rossa, per vedere la profondità della tana del bianconiglio.
Era il 1999 e gli allora fratelli Wachowski entrarono nella storia del cinema con il loro secondo film. Un sofisticato cyberpunk che da lì a breve sarebbe divenuto una vera e propria icona del cinema, tanto sci-fi quanto in generale. Protagonista assoluto Keanu Reeves, di ritorno alla fantascienza dopo il Johnny Mnemonic di quattro anni prima.
Al suo fianco, Laurence Fishburne e Carrie-Anne Moss, pronti ad indirizzare l’amatissimo attore protagonista sul sentiero della vittoria contro le macchine. Prima però, l’ardua scelta. Un gesto che di fatto lo perseguiterà sotto varie forme durante il corso della trilogia intera, divenuta da poco tetralogia.
Nell’ormai non più vicino 2003, l’industria hollywoodiana pretese suo malgrado un necessario proseguo, soprattutto visto l’ampio successo del primo film. Che, è bene ricordare, uscì lo stesso anno de La Minaccia Fantasma. Ritagliarsi uno spazio di discussione (e nomination) nell’anno del ritorno di Star Wars non è roba da tutti. Ma tutto è possibile se si ha la consapevolezza di aver instaurato un nuovo immaginario nella fantascienza.
La prima rivoluzione: il bullet time
Siamo verso la fine del film, Neo è costretto a salvare Morpheus, prossimo al crollo che consentirà alle macchine di vincere la guerra. Neo è su un tetto, senza più munizioni e con un Agente pronto a scaricargli addosso un caricatore. Ciak, si gira la scena che entrerà nella storia sfruttando il “bullet time“.
Questa tecnica, già sperimentata nei primi anni Ottanta e Novanta, trova una vera e propria consacrazione con Matrix, anche grazie all’uso di una CGI chiaramente più all’avanguardia. Insomma, una modifica del semplice concetto di rallenty che dal 1999 in poi rimanderà sempre e soltanto a Matrix.
Questa firma stilistica basata su un equilibrato mix di slow motion e CGI che, come detto prima, entrerà nell’immaginario collettivo di ogni singolo spettatore. Da lì in poi saranno molti gli usi (e abusi) di questa tecnica. Si pensi al The One di due anni dopo in cui Jet Li combatte contro agenti antisommossa che sparano proprio in bullet time. E via discorrendo.
Il grande paradosso è che poi questa tecnica apre il primo Matrix. Trinity si trova a fronteggiare agenti della polizia prossimi ad arrestarla. Con un balzo, rimane sospesa nell’aria e scalcia via il primo degli agenti in questione. Eppure, Neo sul tetto che schiva i proiettili ci è ancor più fisso nella memoria.
Sebbene il secondo capitolo incassò più del primo, i primi nasi di critici e spettatori iniziarono a storcersi. Almeno gran parte di essi. Lo stupore che restituì il primo Matrix non aveva più la stessa rivoluzionaria magia. Tutte le leggi della fisica continuavano a venir meno ma senza trovare, per l’appunto, lo stupore di cui sopra. Tutti già sanno come schivare i proiettili, tutti sanno che accadrà .
Poco importava dell’inseguimento sull’autostrada, che culminava con un altro bullet time da far sudare le mani, o della presenza di personaggi inquietanti e affascinanti come il Merovingio e l’Architetto. O ancora, la presenza di un’anomalia come l’Agente Smith, folle e redivivo villain ribelle in cerca di vendetta.
Non sappiamo dire cosa effettivamente ci si aspettava all’epoca. Eppure gli ancora fratelli Wachowski ci avevano dato tutto ciò di cui avevamo bisogno. E che a loro modo ci avevano già comunicato alla fine del primo film, in cui la voce di Neo rompe la quarta parete parlando direttamente a noi spettatori.
Nel mezzo, quasi in parallelo, il franchise si arricchisce di corti di animazione, fumetti e un videogame in particolare, Enter The Matrix, che si inserisce come uno spin off interattivo. Non ci sarà Neo come protagonista bensì Niobe e Ghost, due personaggi che dovranno recuperare consegnare un messaggio da parte di una nave distrutta, la Osiris.
La trama di questo videogame ci viene solamente accennata in Matrix Reloaded. Sappiamo che i due dovranno portare a termine questo compito ma allo spettatore non è possibile vederlo. A meno che non decida di impugnare un joystick. Ci troviamo dunque di fronte ad uno dei primi esempi assoluti di transmedialità , dove videogame e cinema diventano un tutt’uno perfettamente bilanciato.
Oltrepassando questi esperimenti riusciti (di marketing?), il dittico resta una delle opere più discusse e quasi sempre in senso negativo. Come detto prima, forse è un discorso legato alle aspettative che il primo Matrix aveva creato. Non sono certamente film perfetti ma andando ad analizzare ciò che accade e come viene mostrato, notiamo degli spunti che in pochissimi si sono presi la briga di osservare.
Le sfumature della matrice
Le letture a cui si prestano Matrix Reloaded e Matrix Revolutions sono quantomai stratificate. Da un lato, notiamo come sia una celebrazione della diversità , ascoltando le parole di Lana Wachowski. Dall’altro come tutto possa ricondurre ad una metafora cinematografica tra l’analogico e il digitale. Uno scontro ideale incarnato da due potenze come l’Architetto e l’Oracolo.
Proprio sull’Architetto, è necessario aprire una piccola parentesi di stampo ampiamente filosofico che rimanda al velo di Maya di Schopenauer. Entrando in una porta, Neo valica quell’ideale velo di Maya scoprendo la verità che c’è dietro Matrix. E, ancora una volta, una scelta rappresentata da due porte. Il dolore di perdere la donna che ama, l’angoscia del senso di colpa di chi non ha potuto salvare l’umanità .
Sotto un aspetto più legato al medium cinematografico, in uno scontro dialettico, ecco trovare il pieno esaurimento della lettura metacinematografica del film, come sopra accennata. Sia Matrix Reloaded che Matrix Revolutions sono un vero e proprio tripudio di azione ma composte da caratteri del tutto diversi tra loro. Nel primo caso, troviamo quasi un abuso di quel bullet time che tanto ha reso celebre la saga. Nel secondo, invece, è possibile riscontrarne un uso quasi del tutto nullo.
Eppure, l’impianto fiabesco e citazionista permane, insieme alle rivoluzioni annunciate nel titolo. La storia d’amore continua ad essere la forza propulsiva che porta avanti le vicende. Inoltre, un cambiamento radicale lo si nota sin da subito. Nessun titolo d’apertura, niente credits. E soprattutto niente verde, sostituito da un fascio di luce arancione. La stessa che vedrà Neo quando perderà la vista.
Magistrale la sequenza in cui lo sfondo nero non accompagna più i codici verdi ma un’aura dorata, dove Neo penetra nella ferita di Trinity per poi pomparle il cuore. E riportarla in vita. L’ultimo miracolo dell’Eletto prima del sacrificio, scontrandosi contro il suo ideale doppelganger, l’agente Smith.
L’altra faccia della medaglia: Smith
Questa figura appare quantomai interessante nella sua folle scrittura. Prima, un mero esecutore di repressioni verso chi voleva la libertà . Ogniqualvolta la dittatura della matrice viene “in pericolo” o quantomeno messa in dubbio, gli agenti arrivano con il loro fare oppressivo. Una cimice per controllare gli spostamenti, una bocca fisicamente sigillata.
Fino poi ad una naturale evoluzione, un “bug“, per usare termini informatici. A Smith non basta più eseguire, lui vuole controllare. Usurpare il potere delle macchine per crearne uno nuovo, fatto a sua immagine e somiglianza. Un nuovo ordine omologato volto ad annientare tanto chi lo ha creato quanto chi gli si oppone, quegli esseri umani liberi e variegati nell’etnia.
Una sfumatura fondamentale, soprattutto nella misura in cui da un lato troviamo gli umani ribelli che insinuano il dubbio negli schiavi, portandoli a compiere una scelta. Dall’altro, l’obbligo alla schiavitù e, nei capitolo seguenti, l’obbligo a diventare Smith. Tutto si basa quindi su una scelta da compiere attraverso un complesso atto di fede.
Fede nelle macchine e nella realtà controllata, fede nella libertà e nell’Eletto. E scelta nel combattere chi reprime, che non significa necessariamente salvare il mondo. La scelta di ingollare quella pillola rossa, in barba alle demenziali teorie di oggigiorno sulla Red Pill, è una scelta precisa sull’affrontare la verità . Una verità forse scomoda, troppo grande per menti fin troppo assoggettate. Ma pur sempre una verità .
Menzione speciale e doverosa per due sequenze magistrali che compongono il secondo e il terzo capitolo. Momenti in cui lo spazio limitato diventa strumento funzionale all’esaltazione tanto dei corpi degli attori quanto della tecnica regista e visuale, rispetto i VFX.
In ordine cronologico, il combattimento tra Neo e il redivivo Smith insieme ai suoi cloni. Arti marziali, bullet time ma soprattutto dei cambi di velocità di quest’ultimo che esalta la complessità della coreografia. Così come in maniera analoga accade nella lussuosa magione del Merovingio, in cui Neo se la deve vedere con i suoi scagnozzi.
Infine, nel terzo capitolo, lo scontro finale tra Neo e Smith, dove viene ripresa l’estetica dello slow motion del primo film per essere di fatto modificata e piegata ad un’altra situazione. Il tempo, lo spazio e la velocità cessano di esistere così come lo abbiamo sempre percepito. Subiscono modifiche continue, l’una in antitesi con l’altra.
Ora lo scorrimento classico e percepibile dall’occhio umano, ora una velocità iper-sensoriale, ora lo slow motion. Azioni che trascendono l’umanità e che solo l’incarnazione del Bene e del Male possono compiere.
Aspettando la Resurrezione
Guardando ad un certo tipo di cinema di oggi, quello dei blockbuster, appare quantomeno doveroso riprendere in mano questi due sequel e guardarli con altri occhi. Occhi consapevoli che ci troviamo di fronte a film di un certo spessore culturale, sicuramente carichi di imperfezioni. Ma che comunque non lasciano nulla al caso, portando lo spettatore a porsi delle domande, a trarre riflessioni dagli spunti che la trilogia offre.
Potrebbe suonare anche paradossale, sotto certi aspetti. Ad oggi, ci troviamo in un’epoca dove il cinema commerciale vede una netta divisione tra cinecomics e ondate di sequel/remake/reboot. La cui qualità non sempre è alta, anzi.
Eppure, in questo scenario, sembra appunto quantomai necessario affidarsi proprio ad uno di essi. Dei sequel, appunto. Film che, insieme a Matrix Resurrections, si dimostrano essere predittivi della tensione verso la quale il cinema di oggi sarebbe andato. E, nel caso del quarto capitolo, capire come fare a muoversi dentro di essi.