C’è Massimo Troisi (Il Postino, nientemeno), c’è Verdone (tutti i primi classici a episodi), c’è la “trilogia” madre degli AGG: e c’è anche Roberto Benigni, che di quella generazione continua a rappresentare tanto l’autore più incensato quanto più legittimamente criticabile.
Raggiunta l’eterna e assai discutibile gloria con La Vita è Bella, l’ex giullare indemoniato di Giuseppe Bertolucci si è riscoperto a oggi custode dell’italianità più accademica e claustrale, assumendo una posa a metà tra l’insegnante di lettere e il prete di paese, a fiera difesa della più istituzionale Cultura.
Buffo che da un tale appiattimento creativo sia nato il film che a questa austera tradizione è forse l’insulto più irrisorio, una delle operazioni di smitizzazione involontaria più grottesche che si ricordino, per di più perpetrata ai danni di un altro “intoccabile” come il povero Carlo Collodi.
Da vent’anni, il Pinocchio di Roberto Benigni è deriso e mortificato con il sarcasmo che si riserva ai bersagli facili: imperituro monito contro la follia dei grandi artisti ubriachi d’autoindulgenza, come tutti i più spettacolari suicidi economici del cinema merita rispetto.