Nato il 3 dicembre 1930, Jean-Luc Godard è figlio di una ricca famiglia protestante di origine svizzera. A 19 anni il futuro regista consegue il diploma in etnologia, branca dell’antropologia che si occupa di studiare e confrontare le popolazioni esistenti. Agli inizi degli anni Cinquanta Jean-Luc Godard collaborò con la famosa rivista cinematografica francese Cahiers du cinéma, che vide la luce nel 1951.
Su tale periodico il giovane mosse critiche aspramente negative alla maggior parte dei film francesi in uscita. Egli, infatti, biasimava il loro inseguimento del facile successo prediligendo regole convenzionali all’innovazione e alla sperimentazione. Ma oltre alle critiche, insieme a un gruppo di colleghi, Godard cercò di realizzare in prima persona film che portassero novità nel panorama.
Nel 1960, quindi, il regista esordì con Fino all’ultimo respiro, uno dei pilastri su cui il gruppo istituì un nuovo movimento: la Nouvelle Vague. Nella loro “Politica degli autori”, i fondatori affermavano che il film non coincide con la sceneggiatura o con gli attori, ma con chi lo ha girato. Ciò significa che un’opera, più che raccontare una storia, narrava la quotidianità attraverso determinate scelte stilistiche appartenenti a un singolo regista.
Nel caso di Jean-Luc Godard, possiamo datare la sua prolifica ed eclettica filmografia in tre periodi. Dopo i primi cortometraggi (1954-1958), riconosciamo un primo periodo (1960 – 1967), che ospita tutti gli apporti del regista alla Nouvelle Vague. Nel periodo rivoluzionario(1968 – 1972), Godard raccogliere l’eredità del Sessantotto nei temi e rifiuta l’idea di autore unico nello stile, fondando il gruppo avanguardistico Dziga Vertov. Infine, nel terzo periodo (1975 – oggi) il regista sperimenta anche con le immagini del video.
Considereremo qui cinque opere appartenenti alla Nouvelle Vague, il periodo più significativo e rappresentativo di Jean-Luc Godard. A supporto della scelta il discorso di Vincent Cassel in occasione dell’Oscar alla carriera al regista francese nel 2011. L’attore ha infatti ricordato il connazionale proprio per l’innovativo movimento, che ha lasciato i cineasti di tutto il mondo… breathless.
1) Fino all’ultimo respiro (1960)
Michel Poiccard (Jean-Paul Belmondo) è un criminale vagabondo in fuga dalla polizia dopo il furto di un’automobile a Marsiglia. Dopo aver ucciso un poliziotto per non essere incarcerato, il ladro fugge a Parigi, dove ritrova un vecchio amore. Si tratta di Patricia (Jean Seberg), una studentessa americana incinta, forse proprio di Michel.
Insieme a I 400 colpi (François Truffaut, 1959) e, secondo alcuni, Hiroshima Mon Amour (Alain Resnais, 1959), Fino all’ultimo respiro è considerato il manifesto della Nouvelle Vague. La storia è basata su un fatto di cronaca nera, rielaborato in un’esile sceneggiatura rimaneggiata più volte per ottenere i finanziamenti. Ma, come abbiamo detto, da manifesto la storia cede il passo all’improvvisazione. Non è un caso che Jean-Paul Belmondo e Jean Seberg siano diventati, grazie al film in esame, due icone della Nouvelle Vague.
Il film ha reinventato il modo di fare cinema. Basandosi quotidianamente sulle visioni del girato, Jean-Luc Godard prendeva decisioni di giorno in giorno e girava in modo improvvisato senza utilizzare supporti. Infatti, la famosa scena della lunga carrellata senza stacchi della camminata dei due protagonisti è girata con camera a mano. I frequenti Jump Cut, inoltre, rompono continuamente la continuità tra le scene, spaesando lo spettatore.
Celeberrima è anche l’estenuante scena di dialogo superfluo tra i due amanti: nella Nouvelle Vaguel’irrilevante diventa evento. Ma è solo una delle molteplici contraddizione messe in scena dal film. Per esempio, infatti, nonostante ricerchi l’autenticità, Godard modella il suo protagonista sui personaggi di Humphrey Bogart (evidente la critica alla tradizione hollywoodiana). Ma la più rilevante resta la rottura della quarta parete con Belmondo che si rivolge allo spettatore: l’autenticità è ricercata tramite una palese finzione.
La ventiduenne Nana Kleinfrankheim (Anna Karina) desidera così ardentemente di entrare nel mondo del cinema che lascia marito e figlio per trasferirsi in città. Mentre lavora come commessa in un negozio di dischi, la ragazza racimola soldi per pagarsi un servizio fotografico in grado di aprirle le porte della recitazione. Ma la sua vita prende una piega drammatica…
La storia di Questa è la mia vita è divisa in 12 “quadri”, tutti aperti con una didascalia che ne rivela il titolo. Tale struttura deriva dal film episodico Francesco, giullare di Dio (1950) di Roberto Rossellini, che Godard considerava suo maestro. La narrazione è frammentata e non lineare e ogni quadro presenta un registro e uno stile diversi. Il regista adotta uno stile teatrale e punta a straniare lo spettatore, ad esempio con il piano-sequenza.
La protagonista delle vicende è Nana, interpretata da una splendida Anna Karina. Il nome del personaggio, oltre che richiamare l’omonimo romanzo di Émile Zola, è un anagramma del nome dell’attrice. E se Nana è una ragazza moralmente provata, si poteva dire lo stesso della sua interprete, che non smetteva di avere conflitti con Jean-Luc Godard.
A livello invece tematico, il film raffigura il consumismo parigino, con i suoi caffé, i suoi poster pubblicitari, le auto sfarzose, i juke-box e via così. Legato al consumismo è il tema della prostituzione, caro sia a Jean-Luc Godard che all’amico e collega François Truffaut (entrambi ne fruivano). Per Godard la prostituzione è una cruda metafora dei rapporti sociali, soggiogati da istanze commerciali.
3)Il disprezzo (1963)
Il regista Paul Javal (Michel Piccoli) deve recarsi a Roma per riscrivere la sceneggiatura di un film sull’Odissea diretto da Fritz Lang (se stesso). Il produttore (Jack Palance), infatti, ritiene che l’opera non abbia buone possibilità commerciali. Durante la permanenza, il regista entra in conflitto con la bellissima giovane e fidanzata Camille (Brigitte Bardot) a causa di un importante malinteso.
Il disprezzo è ispirato all’omonimo romanzo di Alberto Moravia, a sua volta ispirato al set dell’Ulisse di Mario Camerini (1954). Il film rifiuta i canoni cinematografici già dai titoli di testa, letti da una voce fuori campo invece di essere scritti. Tuttavia, per Il disprezzo, Jean-Luc Godard aveva pronta una sceneggiatura dettagliata. Il motivo è semplice: essa conteneva tutti i litigi tra il regista e Anna Karina, che si ritrovò nelle battute di Brigitte Bardot. Michel Piccoli, invece, aveva la fisionomia e il temperamento di Godard.
I due attori sono divenuti protagonisti di una delle scene involontarie d’amore più suggestive del regista francese. I produttori, infatti, richiesero tre scene di sesso, ma Godard ne girò solo una, montata a inizio film. Il regista coprì le nudità della Bardot e assegnò a Piccoli la frase “Ti amo totalmente, teneramente, tragicamente.“. Ma, via via che il film procede, la coppia cade in una drammatica incomunicabilità.
Il tono dell’opera è fortemente suggestivo per i numerosi campi lunghi, il montaggio concettuale con le statue classiche e i colori contemporaneamente sgargianti e spenti. Fritz Lang incarna il mito di un cinema classico ormai passato, che ha ceduto il passo a un cinema moderno in piena crisi. Per godere appieno della maestosità del film, consigliamo la versioneoriginale e non quella italiana, pesantemente tagliata dal produttore Carlo Ponti.
4) Il bandito delle 11 (1965)
Ferdinand Griffon (Jean-Paul Belmondo) è appena stato licenziato dal suo impiego in TV ed è insoddisfatto del proprio matrimonio. Dopo aver ritrovato Marianne Renoir (Anna Karina), l’uomo decide di abbandonare la propria famiglia alla vita borghese e fugge con lei. Tuttavia, non appena entrato nell’appartamento di lei, Ferdinand rinviene un cadavere.
Il bandito delle 11 è un altro dei film più rappresentativi dell’apporto fornito da Jean Luc-Godard alla Nouvelle Vague. Lo dimostra in particolare la scena iniziale della festa. Il montaggio è fortemente discontinuo, filtri di colori diversi velano le varie inquadrature e, infine, un jump cut genera un’esplosione dal lancio di una torta.
I colori sgargianti che avvolgono il film anticipano la pop art e dalla sua predilezione per il kitsch. La scena più rappresentativa in tal senso è quella dell’assedio di Marianne da parte dei gangster. Il capo di questi rivolge la pistola all’obbiettivo, mentre Marianne un paio di forbici, con un montaggio concettuale che sfonda la quarta parete.
Il bandito delle 11 abbonda di riferimenti alla cultura popolare in generale, dalla cronaca ai film di serie b che venivano prodotti in serie. L’approccio anarchico all’arte, alla letteratura e al linguaggio costò pesanti critiche e un divieto ai minori di 18 anni. Non a caso, il film mosse le coscienze di molti giovani in vista del Sessantotto. Ma il divieto probabilmente è dovuto anche al tragicomico finale.
5) Week End – Una donna e un uomo da sabato a domenica (1967)
La giovane parigina Corinne (Mireille Darc) e il marito Roland (Jean Yanne) si recano in campagna come di consueto a trovare i genitori di lei. Entrambi hanno l’intenzione di ucciderli per godere di una ricca eredità. Tuttavia, durante il viaggio, la coppia assisterà a episodi di violenza sconcertante, incidenti d’auto e personaggi bizzarri…
Week End è l’ultimo film di Jean-Luc Godard prima del periodo Sessantottino. L’idea del film alla base del film nasce più da istanze stilistiche: il regista voleva costruire una storia attorno a due scene virtuosistiche. La prima è la scena dell’ingorgo automobilistico che consiste in una carrellata lunga 9 minuti (la più lunga della storia del cinema). La seconda, invece, è la scena delconcerto in piscina, girata in triplice panoramica.
Prima di parlare del rapporto tra Jean-Luc Godard e i protagonisti, vi ricordate che nella Nouvelle Vague il film è di chi gira e non di chi recita? Ebbene, il regista sul set non considerava nemmeno persone gli interpreti, ma semplici personaggi di fantasia. Loro, di risposta, sopportarono stoicamente. Precisiamo infine che Godard accettò di lavorare con Mireille Darc perché non la sopportava. E così doveva essere anche Corinne.
Il grande budget a disposizione concesse piena libertà creativa al regista, che abbondò anche con la violenza. Chiaramente, essa concorre a una manifestazione della profonda crisi morale che attanaglia il mondo.