George Harrison non era solo “il terzo Beatle”: era molto di più
La sequenza sappiamo qual’è: John, Paul, George e Ringo. Il terzo era sempre lui: George Harrison. Il Dark Horse, quello schivo, un po’ timido, un po’ ombroso, che se ne stava in disparte a suonare le parti solistiche tanto apprezzate nel lavoro della band. Per anni, e di sicuro fino allo scioglimento del quartetto nel 1970, lui è sempre stato il “terzo” dei Beatles.
Certo, terzo è sempre meglio che ultimo. Ed è vero, difficilmente la qualità del suo songwriting ricercato e spirituale si può confrontare con quello delle super-hit ambiziose e moderne a firma Lennon/McCartney. Ma è anche vero che una crescita autoriale come quella di George, nella storia della musica, non s’è mai vista.
Dal primo timido tentativo con Don’t Bother Me (1963) alla scoperta delle sonorità indiane e all’introduzione del sitar (Love You To, 1966), fino alla completa emancipazione di capolavori come While My Guitar Gently Weeps (1968), il percorso di Harrison rivela tratti stupefacenti. Ritrovatosi quasi per caso nella band più famosa (e migliore?) del mondo, l’artista fa del suo meglio per stare al passo.
E ci riesce egregiamente nel raggiungere il suo momento d’oro, nel 1969, con la pubblicazione di Here Comes the Sun (ancora oggi la canzone in assoluto più ascoltata dei Beatles: è sua) e Something. L’uscita del suo primo album vero e proprio, All Things Must Pass, è un completo trionfo di personalità artistica, totalmente inaspettato.
Brani come My Sweet Lord, Isn’t It a Pity, Beware of Darkness, Wah-Wah e What Is Life fanno tremare all’idea di cosa ne sarebbe uscito se fossero stati registrati dall’intero quartetto. Ma George comprende perfettamente l’importanza della sua musica come solista e di ciò che ne può trarre. Anche per questo nel 1971 la mette al servizio di una buona causa nel concerto per il Bangladesh, il primo grande concerto per beneficenza.
I suoi successi discografici declinano con la decade che segue. Nel mentre arriva la disavventura amorosa che gli porta via la moglie Pattie a favore del migliore amico, Eric Clapton; le imprese cinematografiche con i Monty Python; e il bizzarro interesse per le corse automobilistiche di Formula 1.
Negli anni ’80 la rinascita, specialmente grazie a Jeff Lynne dell’Electric Light Orchestra, che insieme a lui forma il supergruppo The Traveling Wilburys assieme a Bob Dylan, Roy Orbison e Tom Petty. E l’uscita del fortunato album Cloud Nine (1987), con i singoli When We Was Fab e la cover di grande successo Got My Mind Set On You.
Ma le canzoni non bastano a riassumere l’importanza del suo lascito: la forte spiritualità della quale la sua musica è sempre intrisa, così come la sua concezione difficile di una vita che pone troppi problemi per essere sempre affrontata di petto. Il rapporto difficile col figlio Dhani, l’intenso matrimonio con la moglie Olivia e il rapporto recuperato all’ultimo con Paul e Ringo segnano la fine della sua storia, fino alla morte per cancro nel 2001. Oggi c’è ancora tanto da riscoprire di lui: da qui potete iniziare.