Perché Paolo Sorrentino è il Re del cinema italiano contemporaneo
In attesa di È stata la mano di Dio, in uscita al cinema dal 24 novembre, riscopriamo i motivi che hanno reso Paolo Sorrentino una delle figure chiave del cinema italiano!
Lars Von Trier, Wim Wenders, Ettore Scola: sono alcuni dei personaggi che ritroviamo, in citazioni più o meno sottili, in Boris. L’unica personalità che è presente fisicamente, quasi come una citazione di se stesso, è Paolo Sorrentino. Mattia Torre era stato decisamente lungimirante, ammettendo il regista nello strambo carnevale del dietro le quinte de Gli occhi del cuore. E questo singolare cameo si carica di significati.
Non solo perché evidentemente gli sceneggiatori individuarono in Sorrentino una figura chiave del cinema contemporaneo, ma soprattutto per il modo in cui quest’ultimo si relaziona con il set orchestrato di René Ferretti, che non riesce a non confonderlo con il Matteo Garrone di Gomorra. Profetico nelle poche righe di dialogo a lui affidate: “Basta con questo posto luttuoso e mortuario, vattene via da questa serie di merda!”. Chi conosce i sottotesti di Boris, sa benissimo che in quelle parole c’è un vero e proprio atto di accusa e una triste e amara verità.
Possiamo dire senza ombra di dubbio che Paolo Sorrentino è l’unico regista che ad oggi rappresenti il cinema italiano nel mondo. L’unico capace di esportare la propria visione senza scendere a compromessi con la propria storia personale ed artistica. Un autore che figura regolarmente nelle selezioni dei Festival più prestigiosi, e che strappava riconoscimenti fondamentali ben prima dell’ormai leggendario Oscar del 2014.
È stata la mano di Dio: arrivare significa ritornare
L’ultima Mostra del Cinema di Venezia sembra lanciarlo nuovamente alla prossima cerimonia del Dolby Theatre. Quel Leone d’Argento negli ultimi anni si è confermato essere un biglietto per la lotteria dell’Academy. Cosa renda Paolo Sorrentino un regista dal respiro internazionale, pur restando così ancorato alle proprie radici, è sicuramente la chiave della sua importanza per il nostro cinema.
Vi ricordiamo che Sorrentino tornerà al cinema dal 24 novembre con È stata la mano di Dio grazie a Lucky Red. Nella sua Napoli, il regista racconta il suo film più personale e toccante. La storia del giovane Fabietto, adolescente partenopeo innamorato di quel sogno chiamato Maradona, è un fortissimo richiamo autobiografico.
Mentre la vita scorre, fra le partite del Napoli e la lotta quotidiana per ritagliarsi uno spazio in quel mondo, un grave lutto cambia la vita del ragazzo, imponendogli una profonda svolta…
Paolo Sorrentino e le conseguenze del passato
Se volessimo tracciare un percorso a ritroso, con È stata la mano di Dio, che promette d’essere il suo capolavoro più intimo e maturo, ritroveremmo una conferma a posteriori proprio di tutto questo. Di un regista che ringrazia Roma per l’Oscar a La Grande Bellezza, ma che non può fare a meno di tributare il proprio amore a Napoli.
Chiude sicuramente il cerchio su L’uomo in più, in cui un doppio irrisolto raccontava l’amore per il calcio, davvero salvifico nella vita di Sorrentino, e il folklore scanzonato e arrogante dell’underground napoletano. Un regista che ha una profonda coscienza delle proprie origini, e che nutre un genuino sentimento del tempo.
Meno legato in maniera esplicita alla propria terra di quanto non sia ad esempio Mario Martone, ma non per questo meno debitore alla propria storia. Non sarà quindi un caso se i due registi, ormai da vent’anni, condividono lo stesso attore feticcio, quello straordinario Toni Servillo che è senza alcun dubbio uno dei più grandi attori viventi.
In quest’ardente variazione sui passaggi più delicati della propria adolescenza, È stata la mano di Dio ci riporterà quindi in quella Napoli, azzurra come il mare che si gonfia e si ritira, che svuota e riempie. Una Napoli che non è certamente sfondo perpetuo in tutta la sua filmografia, ma che rappresenta la matrice imprescindibile in cui si è formato il suo punto di vista. Uno sguardo così intriso di esistenzialismo e di una mai latente malinconia.
Gli amici di famiglia
Tutti i suoi protagonisti sono fantasmi di un passato su cui spesso glissa. Incapaci di fare i conti con il proprio vissuto, si estromettono da soli dal proprio presente, diventando incapaci di viverlo e decifrarlo. Questo motivo ricorrente apre la gamma di personaggi che abitano la filmografia di Paolo Sorrentino.
Dalla ex pop-star Cheyenne alla ricerca di vendetta, o forse di redenzione, allo scrittore Jep Gambardella, che vive della fortuna del suo unico, e a sua detta assolutamente dimenticabile, romanzo. Si arriva così fino ai giganteschi film biografici su due figure cruciali della storia della nostra Storia politica, Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi, titani sul cui operato restano troppe ombre. E lo stesso dicasi per Lenny Belardo, quel Papa perverso e contraddittorio che segna ad oggi l’approdo più sferzante e riuscito dell’audiovisione secondo Paolo Sorrentino.
Tutti alla ricerca di misericordia, di pietà, o forse solo di trovare ricambiato quello sguardo perso dentro la macchina. Una cifra stilistica di Sorrentino, che lega tutti i suoi film rompendo la regola d’oro che non vorrebbe mai un attore centrare la propria visuale sull’obiettivo che lo guarda. Una perenne rottura della quarta parete, che rende ancora più provocante una macchina da presa che Sorrentino orchestra in modo magistrale.
Paolo Sorrentino, ovvero l’uomo in più in un cinema italiano ristagnante e incapace di evolvere
Di elementi che autorizzano a parlare di autorialità ne abbiamo già definiti a sufficienza. È sicuramente in questa dimensione che Paolo Sorrentino ha superato i limiti. Quelli connaturati ad una tradizione cinematografica che negli anni ha mostrato sempre più il fianco ad un approccio reazionario.
Se escludiamo qualche rara e felice eccezione che però per lo più si versa nel cinema di genere, e qualche primizia delle nuove generazioni, è impossibile nascondere che l’offerta del cinema italiano si riduca a prolungare quei due filoni che storicamente fecero la sua fortuna. La commedia all’italiana e il neorealismo restano le sue direttrici fondamentali.
Paolo Sorrentino ha rinunciato a questo apparentemente inscindibile dualismo sin dal suo incredibile esordio. È scegliendo una via ben precisa, che porta con sé ogni volta critiche estremamente divise, che è riuscito a superare i confini del nostro cinema. Ed è sicuramente questa la strada che l’ha portato ad essere un autore di livello internazionale.
Un cinema fatto degli eterni silenzi di Antonioni e delle riflessioni metafisiche di Bergman. Un cinema che rinuncia a qualsiasi linearità e verosimiglianza per abbracciare una narrazione estremamente discontinua ed evocativa, ricca di allusioni e metafore capaci di disorientare e affascinare.
Torniamo però a quel sentimento del tempo che rappresenta la fibra più autentica della sua poetica. Sempre in bilico tra esistenze decadenti e lo splendore degli ambienti che li circondano, Paolo Sorrentino elegge un riferimento assoluto all’estraniante estetismo che caratterizza il suo cinema.
Guarda indietro alla Storia del cinema individuando la coordinata fondamentale in Federico Fellini. Senza dubbio la Roma, turpe e splendida, de La Grande Bellezza, resta l’esempio più fulgido di questa ispirazione, ma in tutta la sua filmografia il cinema del maestro riminese resta un esempio assoluto. Il film premio Oscar strizzava chiaramente l’occhio a La Dolce Vita. Non è da meno la sfilata dei cardinali in The New Pope nei confronti di Roma. E ancora, l’omaggio a 8 1/2 in È stata la mano di Dio.
This Must be The Way
Un modello che guida il suo occhio nei magnetici e spesso irreali movimenti di macchina, capaci di scandagliare ugualmente l’animo dei personaggi e le magnifiche scenografie come una presenza spiritica, alla ricerca costante di quell’inquadratura dalle perfette proporzioni e simmetrie.
Paolo Sorrentino rappresenta a tutti gli effetti il raccordo tra il nostro cinema e il suo passato con le istituzioni internazionali del panorama contemporaneo. Non solo per i riconoscimenti che Cannes e l’Academy gli hanno tributato negli anni, o per le sue produzioni esterofile, quali This Must Be The Place e Youth – La giovinezza.
Lo fa elevando Martin Scorsese a suo altro Maestro, ibridando nel suo cinema le più diverse suggestioni dalle più diverse cinematografie. Lo ritroviamo senza dubbio proprio ne La Grande Bellezza, nella spregiudicata e brulicante coralità di comparse e sottotrame, e ancor di più in Loro, capace di rasentare gli eccessi delle più grandi regie scorsesiane. Sorrentino sceglie di portare in scena la stessa vivida e stratificata umanità, a rimarcare il contrappunto con l’eterna solitudine dei suoi protagonisti.
Paolo Sorrentino, Il Divo del nostro cinema
È così che il suo cinema si fa specchio della sua storia. Una vita continuamente tesa su un tragico passato e sulle sregolatezze di un’esistenza difficile, che si riflette in opere dove aleggia continuamente lo spettro della morte. Da qui, Paolo Sorrentino sceglie gli slanci di un vitalista, nutrendo la propria poetica di irriducibili contrasti.
La spasmodica esplorazione della perfezione estetica, e il continuo debordare sulle estremità più oscure dell’uomo. La placida lentezza narrativa, e il fascino di una regia capace di spettacolarizzare e intrattenere. Primissimi piani che violano i dogmi, e campi totali di struggente bellezza; silenzi e musiche fragorose. Paolo Sorrentino è il Re Tremendo del cinema italiano: speriamo che, oltre a Mattia Torre, se ne sia accorto anche il cinema italiano.