Porcupine Tree – Il Dna (in tracce) del fenomeno del progressive contemporaneo

Condividi l'articolo

3- Deadwing: Arriving Somewhere but not Here

Non vi è nemmeno il bisogno di pensarci più di tanto. Quando si cita Deadwing, album che prosegue ed esaspera la piega metal presa da Wilson e soci, non può non venire in mente uno degli emblemi della band britannica: Arriving Somewhere But not Here.

In un crescendo di perfezione ed equilibrio con la quinta traccia del loro ottavo album i Porcupine Tree accompagnano l’ascoltatore in un viaggio così intenso da far lacrimare. Un trip condito di quelle sonorità oscure ed ansiogene che vanno a condire, come mai prima d’ora, l’intera riproduzione dell’album.

Le stratificazioni tastieristiche di Barbieri toccano il loro apice ed aiutano nella costruzione di un crescendo costante e misurato. L’ingresso della sezione ritmica, ben anticipato, porta un preludio di groove e atmosfere che troverà il suo esaurimento in rabbiose e sanguinolente esplosioni distorte.

Il riffing è denso e compatto come non mai, crudo ed incisivo, un pugno nello stomaco capace di mettere i Porcupine Tree, nonostante la relativa semplicità tecnica, al pari dei mastodonti del metal dell’epoca. Sembrerebbe il coronamento di un coerente viaggio temporale. Invece manca ancora un (enorme) tassello.

2 – Fear of a Blank Planet: Anesthetize

C’è una sola traccia, nella discografia dei Porcupine Tree, in grado di superare quel diamante puro di Arriving Somewhere but Not Here: Anesthetize. E’ il 16 aprile del 2007 ed i Porcupine Tree, con la loro nuova pubblicazione, hanno ormai deciso di scendere a fondo nella tana del bianconiglio.

LEGGI ANCHE:  10 band alla scoperta del progressive metal

Le delicate e raffinate sonorità acustiche che, ancora in Deadwing, spesso facevano capolino a mostrare un equilibrio invidiabile nell’utilizzo e nella miscela tra leggerezza e distorsione, sembrano quasi del tutto messe da parte.

Ciò che ne resta è l’estremizzazione di quell’idea metallica che la band britannica aveva ormai fatto sua, sputandola fuori in un modo, tra l’altro, unico e personale. Le psichedelie sono ancora percepibili, il metal è ormai progressivo a tutti gli effetti. La punta di diamante dell’evoluzione della band.

Così con Anesthetize ci ritroviamo di fronte ai densi diciassette minuti di una suite tesa e tormentante. Il groove di Harrison è poesia per il senso ritmico ed accompagna perfettamente le raffinate intarsiature di Edwin e Wilson. Inimitabile, ancora una volta, la stratificazione ambientale di Barbieri.

Ne emerge un pezzo complesso e levigato, giocato su poliritmie e sezioni, alternanza di groove tensivi e improvvise liberazioni, diviso tra momenti di ragionata ed educata genialità metallica e furastici eccessi di ira distorta. Un masterpiece nell’intera discografia metal mondiale.

1 – The Incident: Remember Me Lover

Siamo arrivati alla (a quanto pare momentanea) fine del viaggio. Un finale dolceamaro con un album che, in più modi e per più motivazioni, ha stentato e stenta tutt’ora a convincere. Difficile reggere la pressione dopo una carriera in totale salita. Una caduta era ormai dietro l’angolino.

LEGGI ANCHE:  10 band alla scoperta del progressive metal

Così con The Incident ci ritroviamo di fronte ad un folto concept album che, ancora una volta, tenta di girare e scarnificare la piega metal presa dalla band. Questa volta, però, facendolo con idee ben meno convincenti e talvolta quasi forzate.

Sia chiaro, si parla sempre di lavori di pregevole fattura. In band come i Porcupine Tree, però, quando manca qualcosa si sente più che in altri. E così la chiusura di questo “viaggio” va a coincidere, in modo quasi provocatorio, con la traccia di chiusura del discusso ultimo album dei porcospini: Remember Me Lover.

Forse non il pezzo più musicalmente raffinato della raccolta ma, sotto molti aspetti, quello più ispirato e naturale. L’alternanza tra delicatezze e sonorità più ispide permane con le ormai onnipresenti massicce e rocciose distorsioni metal a far da padrona.

Il titolo stesso, tra l’altro, sembra portare son il preambolo ad un addio (o, a quanto pare, un lungo arrivederci) aggiungendo una punta di romanticismo ad un lavoro incapace di risultare in un funambolico addio.