Non vi è nemmeno il bisogno di pensarci più di tanto. Quando si cita Deadwing, album che prosegue ed esaspera la piega metal presa da Wilson e soci, non può non venire in mente uno degli emblemi della band britannica: Arriving Somewhere But not Here.
In un crescendo di perfezione ed equilibrio con la quinta traccia del loro ottavo album i Porcupine Tree accompagnano l’ascoltatore in un viaggio così intenso da far lacrimare. Un trip condito di quelle sonorità oscure ed ansiogene che vanno a condire, come mai prima d’ora, l’intera riproduzione dell’album.
Le stratificazioni tastieristiche di Barbieri toccano il loro apice ed aiutano nella costruzione di un crescendo costante e misurato. L’ingresso della sezione ritmica, ben anticipato, porta un preludio di groove e atmosfere che troverà il suo esaurimento in rabbiose e sanguinolente esplosioni distorte.
Il riffing è denso e compatto come non mai, crudo ed incisivo, un pugno nello stomaco capace di mettere i Porcupine Tree, nonostante la relativa semplicità tecnica, al pari dei mastodonti del metal dell’epoca. Sembrerebbe il coronamento di un coerente viaggio temporale. Invece manca ancora un (enorme) tassello.
2 – Fear of a Blank Planet: Anesthetize
C’è una sola traccia, nella discografia dei Porcupine Tree, in grado di superare quel diamante puro di Arriving Somewhere but Not Here: Anesthetize. E’ il 16 aprile del 2007 ed i Porcupine Tree, con la loro nuova pubblicazione, hanno ormai deciso di scendere a fondo nella tana del bianconiglio.
Le delicate e raffinate sonorità acustiche che, ancora in Deadwing, spesso facevano capolino a mostrare un equilibrio invidiabile nell’utilizzo e nella miscela tra leggerezza e distorsione, sembrano quasi del tutto messe da parte.
Ciò che ne resta è l’estremizzazione di quell’idea metallica che la band britannica aveva ormai fatto sua, sputandola fuori in un modo, tra l’altro, unico e personale. Le psichedelie sono ancora percepibili, il metal è ormai progressivo a tutti gli effetti. La punta di diamante dell’evoluzione della band.
Così con Anesthetize ci ritroviamo di fronte ai densi diciassette minuti di una suite tesa e tormentante. Il groove di Harrison è poesia per il senso ritmico ed accompagna perfettamente le raffinate intarsiature di Edwin e Wilson. Inimitabile, ancora una volta, la stratificazione ambientale di Barbieri.
Ne emerge un pezzo complesso e levigato, giocato su poliritmie e sezioni, alternanza di groove tensivi e improvvise liberazioni, diviso tra momenti di ragionata ed educata genialità metallica e furastici eccessi di ira distorta. Un masterpiece nell’intera discografia metal mondiale.
1 – The Incident: Remember Me Lover
Siamo arrivati alla (a quanto pare momentanea) fine del viaggio. Un finale dolceamaro con un album che, in più modi e per più motivazioni, ha stentato e stenta tutt’ora a convincere. Difficile reggere la pressione dopo una carriera in totale salita. Una caduta era ormai dietro l’angolino.
Così con The Incident ci ritroviamo di fronte ad un folto concept album che, ancora una volta, tenta di girare e scarnificare la piega metal presa dalla band. Questa volta, però, facendolo con idee ben meno convincenti e talvolta quasi forzate.
Sia chiaro, si parla sempre di lavori di pregevole fattura. In band come i Porcupine Tree, però, quando manca qualcosa si sente più che in altri. E così la chiusura di questo “viaggio” va a coincidere, in modo quasi provocatorio, con la traccia di chiusura del discusso ultimo album dei porcospini: Remember Me Lover.
Forse non il pezzo più musicalmente raffinato della raccolta ma, sotto molti aspetti, quello più ispirato e naturale. L’alternanza tra delicatezze e sonorità più ispide permane con le ormai onnipresenti massicce e rocciose distorsioni metal a far da padrona.
Il titolo stesso, tra l’altro, sembra portare son il preambolo ad un addio (o, a quanto pare, un lungo arrivederci) aggiungendo una punta di romanticismo ad un lavoro incapace di risultare in un funambolico addio.