Siamo nel 1992 e i Porcupine Tree, all’epoca composti dal solo Steven Wilson in modalità one man band, rilasciano il loro album d’esordio: On the Sunday of Life. La deriva psichedelica, mescolata con avanguardistici elementi progressive, è già ben evidente nel DNA del porcospino.
A far da bandiera è Radioactive Toy, un massiccio miscellaneo di psichedelie e chitarre acidamente distorte. Nei suoi dieci minuti di riproduzione il polistrumentista britannico ci porta alla scoperta di landscape avvolgenti e sognanti, eteree ed allo stesso tempo vibranti, irrequiete. Una fototessera dei PT del presente e, soprattutto, del futuro.
9 – Up the Downstairs: Up the Downstairs
Passa si e no un anno dal disco d’esordio e Steven Wilson torna in carreggiata con il suo secondo Full Length. Si iniziano ad intravedere le prime “scintille” della futura formazione con le collaborazioni (su singole tracce) di Colin Edwin al basso e Richard Barbieri (ex Japan) alle tastiere.
Up the Downstairs, quinta traccia dell’omonimo album, si mostra nell’avvinghiante forma di un pezzo strumentale da acidi e paranoia. Un groove coinvolgente e costante, bassi martellanti, le tastiere di Barbieri che mostrano tutta la freschezza e lo stile di un tastierista già rinomatamente d’eccezione.
Il tutto in una psichedelia che, ancora una volta, non lesina al fondersi con i sound del rock più duro e spigoloso risultando in una funambolica montagna russa di sensazioni e scape sonore. Vibrante, illuminata e fuori dalla norma. Un altro fotogramma di un sound che farà la storia.
8 – The Sky Moves Sideways: Stars Die (U.S.A edition)
Richard Barbieri e Colin Edwin sono ormai fissi compagni di giochi del singolare Wilson. Alla kermesse si uniscono le delicate pelli di Chris Matiland, a completare la formazione che comporrà il cast per i sette anni a venire.
La logica vorrebbe, nella selezione di un pezzo emblema dell’album, che la scelta ricadesse sulla sostanziosa suite e title track. A noi (anzi, a me), però, piace uscire dagli schemi e dare merito a quelle perle passate più in sordina.
E’ così che a bandiera della terza produzione “porcupiniana” si erge Stars Die, lieve ballata di cinque minuti contenuta unicamente nell’edizione statunitense dell’album. Un drumming delicato e trascinante è la base ideale per sonorità sognanti ed eteree. Improvvise aperture corali “pompano” l’emotività di un pezzo diretto ma non banale. Un vero e proprio diamante grezzo.
E’ il 30 settembre 1996 e i Porcupine Tree, con Signify, fissano i precedenti per uno dei giri di boa della loro discografia. Un lavoro solido, maturo, ancora una volta rivolto alla sperimentazione anche se, per questa volta, in maniera più leggera e “meno sfacciata”.
Con Dark Matter arriviamo a toccare uno dei punti più alti della loro discografia. Il lavoro di fino di Barbieri, maestro nel creare tappeti e muri sintetici, si intaglia nel fregio di delicate acustiche e di un basso minimale e trascinante. Il tutto prima di esplodere, in modo educato e bilanciato, con acide distorsioni e innesti corali.
Un pezzo ricco di equilibrio, ben pensato e ricco di eleganti dettagli anche nella sua apparente minimalità. Una masterclass di composizione, orchestrazione ed eleganza. Elementi, questi tre, che faranno sempre rima con i Porcupine Tree.