La saga di Creed meriterebbe un capitolo a sé nei manuali di storia del cinema. Il progetto guidato da Ryan Coogler è il vademecum definitivo su come resuscitare, aggiornare e rilanciare franchise del passato nel presente – in un parola, del reboot, pratica antipatica ma da cui sarà ormai impossibile prescindere.
Il film del 2015 riaprì in sordina il discorso apparentemente chiuso di Rocky, prospettando una nuova incarnazione dell’eroe non in sostituzione, ma complementare al mito (escluso persino dal titolo). Un trionfo, riproposto oggi assieme al suo sequel del 2018.
Se il film di Coogler è un meritato classico contemporaneo, Creed II è il gioiello che ha tradotto l’operazione in saga, confermandone una vitalità avanti anni luce, per maturità e visione, a tante operazioni analoghe.
Il film di Steven Caple Jr è più tosto, più action, figlio dei capitoli III e IV della serie madre quanto il prototipo lo era del primo. In più, trova un Dolph Lundgren indimenticabile, nella sua interpretazione definitiva: cosa pretendere di più.
Che fine ha fatto il disaster movie? Quella che fino a dieci anni fa sembrava l’incarnazione più decerebrata del senso stesso di spettacolo cinematografico, oggi sembra aver perso la sua unicità.
Lo show offerto della distruzione su larga scala è stato inglobato dalla formula del superhero movie – e complice l’abbattimento dei costi della CG rispetto agli anni 2000, assistere allo sfacelo di una grande metropoli, esplosioni astrali o cataclismi non rappresenta più un evento.
Doveva aver fiutato l’andazzo Roland Emmerich, che dopo 2012 abbandonò il genere di cui era stato campione incontrastato per darsi a un progressivo ritorno al cinema “in scala”.
Scelta commercialmente sfortunata, ma con qualche perla: su tutte White House Down, action meravigliosamente classico, sottovalutato, necessario ripasso delle capacità del tedesco nel cogliere la dimensione umana nelle apocalissi digitali.
Uno dei suoi ultimi grandi contributi – in attesa del gradito ritorno con Moonfall.
Transformers 3 – Michael Bay (2011)
L’esatto opposto poetico di Emmerich (classicista e umanista il primo, visionario postumano il secondo), Michael Bay è probabilmente l’altro grande eroe del disaster movie ad aver progressivamente abbandonato la via che personalmente aveva contribuito ad indicare. Una sorte simile a quella del suo dopplenganger tedesco, ormai superato a destra da Marvel e Fast & Furious.
Il genio dell’azione “teorica”, senza plot né personaggi, si è oggi lasciato da parte l’astrattismo dei suoi lavori storici: i suoi film recenti sono war movie (13 Hours, bellissimo), action bondiani (6 Underground), persino commedie (Pain and Gain).
Nel 2017, l’ultimo sfortunato tentativo di resuscitare i Transformers ha tardivamente decretato la fine della serie, consegnandone gli eccessi al passato.
Ricordiamone dunque l’apice con Transformers 3, praticamente l’Infinity War del Bayhem: centocinquanta minuti di coreografia della distruzione, istallazione visivo-sonora di uomini e digitale, carne e pixel, triviale e titanico. Irreplicabile.