Era un giovedì sera quando, il 13 gennaio 2000, Dawson’s Creek approdò su Italia 1, a due anni dal suo debutto sulla TV statunitense.
Per coloro che non conoscessero la storia, Dawson’s Creek è ambientato nell’immaginaria cittadina di Capeside, un piccolo centro abitato arroccato sulla curva di un fiume.
Il protagonista è Dawson Leery, un ragazzo che sogna di diventare un regista e che si presenta lamentandosi del “furto” dell’Oscar ottenuto da Gandhi ai danni di E.T.
Al suo fianco c’è l’amica di sempre, Joey Potter (Katie Holmes), che dimostra sin da subito di avere una cotta per il suo migliore amico e una sopportazione appena sufficiente per l’amico Pacey (Joshua Jackson).
L’equilibrio del gruppo subisce una bella scossa quando in città arriva Jen (Michelle Williams). Jen è una bellissima ragazza con un passato tormentato che vive in casa con la nonna bigotta.
Dawson’s Creek, vent’anni dopo
Con il senno di poi è sempre facile individuare i prodotti cult, quelle forme di intrattenimento che, a prescindere dalla resa e dalla qualità tecnica, riescono a lasciare una traccia nell’immaginario collettivo, rappresentando comunque un punto di snodo nella narrazione multimediale.
Ma alla soglia degli anni Duemila, di Dawson e della cosiddetta ship war tra Dawson e Pacey non si sapeva niente. Ad attirare l’attenzione era, soprattutto, la storia di un gruppo di adolescenti che, con i loro problemi, i loro traumi e i loro sogni, cercavano di sopravvivere agli anni del liceo (e non solo).
In un’epoca dove il binge watching era ancora una semplice utopia e seguire una serie significava soprattutto sottomettersi a una tortura fatta di curiosità e attesa, simile a quella che oggi possiamo associare, ad esempio, a WandaVision, Dawson’s Creek era un appuntamento fisso.
Per parlare di Dawson’s Creek a più di vent’anni di distanza bisogna perciò tener conto anche del contesto in cui è stato realizzato. Non solo in ambito socio-politico, che interessa fino a un certo punto; ma, soprattutto, bisogna considerare il modo in cui veniva fruito.
Parte dell’esperienza di visione di Dawson’s Creek derivava dall’idea di parlarne, magari durante l’ora di educazione fisica al liceo.
Magari quando il professore ti chiedeva di correre intorno alla palestra per un motivo ancora oggi poco chiaro quanto a utilità nella propria istruzione. Usavi allora la scorta di fiato che avevi per parlare dell’episodio andato in onda il giorno prima e riempivi il vuoto che ti superava da quello successivo.
Dawson’s Creek è diventato un cult perché ha creato conversazioni, perché tutti hanno conservato un ricordo di quelle chiacchiere.
Sulla gelosia di Joey Potter, su quel suo carattere da passivo-aggressiva che oggi avrebbe fatto storcere ancora di più il naso. Di come fosse pesante Dawson, di come usasse il suo sogno per scappare alla realtà. E di come, nella realtà, Dawson sarebbe apparso come un ragazzino noioso, arrogante e decisamente permaloso.
E poi c’erano, naturalmente, le tante conversazioni sulle storie d’amore. Siamo in un periodo in cui i discorsi sulle ship avevano cominciato ad avere importanza, per poi esplodere con Buffy, quando i fan si schierarono o dalla parte di Angel o da quella di Spike.
La nostalgia: Dawson’s Creek come una comfort zone
Ricordiamo i prodotti della nostra adolescenza soprattutto per quello che ci hanno dato a livello personale ed emotivo. Di Dawson’s Creek ricordiamo soprattutto il lato umano dei personaggi, le dichiarazioni di Pacey o i momenti più drammatici.
Rivedere Dawson’s Creek a vent’anni di distanza, con un altro tipo di consapevolezza e un altro modo di concepire l’intrattenimento porta a galla sentimenti contrastanti.
Se già negli anni Duemila appariva quanto meno dubbiosa una certa scelta linguistica, che faceva parlare degli adolescenti come filosofi decadenti, oggi i dialoghi Dawson’s Creek appaiono non solo esagerati, ma a tratti inquietanti.
Un adolescente di oggi non si lascerebbe senz’altro prendere dal racconto di adolescenti bianchi e potenzialmente privilegiati, il cui unico scopo sembra quello di raccontare una storia a se stessi per avere qualcosa da raccontare.
È l’accusa, ad esempio, che Joey Potter fa a Dawson già nel primissimo episodio di Dawson’s Creek. Joey infatti l’accusa di fingere di vivere chissà quale avventura pur di avere del materiale da usare per il suo copione.
E questo senso di “scollamento della realtà” appare molto più evidente oggi, a distanza di vent’anni, di quanto lo fosse alla prima visione.
Dawson – al di là delle tragedie e dei traumi che gli capiteranno nel corso delle sei stagioni – appare come un ragazzino viziato che vuole che le cose vadano come filano nella sua mente.
A quindici anni, specie alla fine degli anni ’90, non hai problemi a sospirare per i triangoli che si creano sullo schermo. Così come ad aspettare il momento in cui Dawson si accorga finalmente di quello che prova Joey per lui.
Quando di anni ne hai molti di più, invece, quello che vedi è un bamboccio capriccioso, che semplicemente non vuole accettare che gli altri possano fare qualcosa al di fuori del suo controllo.
Un atteggiamento che appare decisamente evidente nei rapporti umani che Dawson intrattiene. Non appena qualcuno agisce in modo non previsto o non consono a una certa idea, il protagonista va fuori di testa. Non solo, ma spesso diventa addirittura crudele.
Procede per ricatti o per un silenzio che pesa come una vera e propria manipolazione emotiva. Da questo punto di vista Dawson appare pericolosamente come un personaggio tossico. Uno per cui l’amore non è incontrare l’unica donna, ma diventare l’unico uomo nella vita di una donna.
Rivedere Dawson’s Creek con gli occhi di una persona che ha superato i trent’anni di vita e ha visto un bel po’ d’acqua passare sotto i ponti significa scontrarsi con scelte decisamente inquietanti, come la professoressa che al primo incontro ammicca con un minorenne parlando de Il Laureato. Ma significa anche anche scontrarsi con quella sensazione che hai provato a quindici anni.
È come se coesistessero due persone all’interno di quella che si è seduta sul divano per rivedere una serie che l’ha accompagnata per molti anni. Da una parte la persona adulta che nota il sessismo, la mascolinità tossica, i dialoghi surreali e personaggi più fastidiosi delle unghie fatte scorrere sulla lavagna.
Dall’altra però è impossibile la componente più nostalgica ed emotiva, che ci fa sorridere affettuosamente davanti alcune scene e perdonare anche le cose più sbagliate, investite da un tale senso di ingenuità che, alla fine, non riesci a non amare lo stesso.
Ma se Dawson’s Creek debuttasse oggi, come un prodotto figlio della seconda decade del nuovo millennio, sarebbe pressoché impensabile un successo simile a quello passato. Friends è apparso vecchio e sbagliato a molte persone della cosiddetta generazione Z: Dawson’s Creek ne uscirebbe a pezzi.
Dawson’s Creek e la liberazione sessuale
Una nota positiva arriva però da un tema come quello della liberazione sessuale, piuttosto sviluppato all’interno di Dawson’s Creek
Pur essendo indietro su molti aspetti, lo show non ha mai nascosto la mano quando si parlava di sesso. Sin dal primo episodio, Dawson, Joey e gli altri personaggi non hanno problemi a parlare di sesso e di come esso condizioni le persone e i pregiudizi della gente di una piccola città.
Già nel primo episodio, prendendo atto della loro crescita, Joey sottolinea l’impossibilità di dormire ancora con Dawson, alludendo alle dimensioni del pene del suo migliore amico.
Una conversazione che se da una parte sottintende una cotta della ragazza, dall’altra lascia cadere il tabù del desiderio carnale delle ragazze in età adolescenziali. Ragazze che non sono più immaginate come principessine che disegnano cuori con l’evidenziatore rosa sul diario, come un decennio prima in Beverly Hills 90210.
Inoltre la serie con James Van Der Beek ha affrontato altri temi non proprio canonici per l’epoca in cui è stata realizzata. Non tanto le relazioni omosessuali – anche perché il discorso legato alle tematiche LGBT in Dawson’s Creek è legato ancora a una visione più omofobica e ignorante di quanto sia oggi -, ma soprattutto per il discorso legato alle malattie mentali, alla depressione e al suicidio. Tematiche non proprio all’ordine di giorno nelle serie pensate per un target più apertamente adolescenziale.
Perciò è tutto da buttare?
In definitiva, è stata una mossa intelligente rivedere Dawson’s Creek a distanza di vent’anni? La risposta non può che essere affermativa.
Fare il rewatch della serie non vuol dire semplicemente riguardare qualcosa che si ricordava con il limite degli anni passati. Significa, di base, riguardare anche se stessi. Per quanto possa apparire un luogo comune, rivedere ciò che abbiamo amato da ragazzini mette sotto la lente d’ingrandimento anche chi siamo diventati.
E, allo stesso tempo, ci ricorda chi siamo stati. Ci ricorda la nostra adolescenza, le persone con cui abbiamo condiviso quel cammino e che, magari, oggi non fanno più parte della nostra vita.
Inoltre – e questo soprattutto in un periodo come questo, vessato dalle notizie sulla pandemia ancora in corso – Dawson’s Creek ci ricorda di un tempo meno intenso ma più semplice. Un tempo dove l’ansia non era la compagna costante di una generazione che con le tragedie del 2020 ha subito l’ennesimo colpo.
Per quella generazione – e dunque anche per chi scrive – Dawson’s Creek rappresenta una sorta di luogo sicuro, un rifugio a cui tornare, riassaporando sulla lingua il sapore degli anni più spensierati, dove tutto sembrava possibile.
Dawson’s Creek visto con la consapevolezza dell’età adulta è una serie che appare vecchia, inquietante, poco verosimile e con scelte drammaturgiche piuttosto evidenti. Eppure non può fare a meno di far sorridere con una sorta di affetto e riconoscenza. E, senza dubbio, è un prodotto dall’estetica porno per quelle nuove generazioni che inseguono il fascino degli anni ’90.