Per quanto si possa pensare di sapere tutto di una serie televisiva che ci ha stregato, magari che ha anche ottenuto un indiscusso successo di critica e pubblico, spesso tendiamo a dimenticare che merito di questo successo è da imputare all’autore che sta al timone del progetto.
A volte, tale autore si rivela essere una figura metodica e preparata, capace di raccontare una storia avvincente, nel modo più efficace possibile. Altre volte l’autore in questione è Mike Flanagan e allora, oltre all’esecuzione affascinante dell’opera e all’incisività del racconto, viene veicolato tra fotogrammi e battute un messaggio importante.
C’è chi pensa che dietro un grande regista ci sia, il più delle volte, una cifra stilistica riconoscibile alla prima inquadratura e un’inclinazione a raccontare storie molto simili tra loro. Mike Flanagan in questo si distingue più di altri. The Haunting of Hill House, Bly Manor e l’ultimo Midnight Mass, sembrano essere le dimensioni scelte dal regista statunitense per diffondere un messaggio preciso.
Un messaggio che assume forme differenti.
A seconda dei mondi in cui viene trasmesso ma tutte connesse alla stessa urgenza, della mente che le ha partorite.
Il bisogno di analizzare la morte da più prospettive differenti.
Appoggiandosi a vecchi schemi del cinema di genere, i fantasmi della serie Haunting o ai vampiri di Midnight Mass, Mike Flanagan parte a raccontare le sue storie, lasciandoci credere che il suo fine ultimo sia quello di spaventarci con i suoi mostri antologici e le sue atmosfere gotiche. In realtà , ogni sua opera spinge lo spettatore verso una dimensione molto più intima, mano a mano che la storia prosegue.
Una dimensione in cui tutti possiamo riconoscerci, fatta di famiglie fratturate, di traumi da elaborare e di lutti. Quei lutti che interrompono le vite di chi resta e vengono infestate dai fantasmi dei rimorsi e dei rimpianti non esorcizzati.
Appoggiandosi a una squadra di attori sempre fidati che, come altri esponenti della categoria hanno scelto da tempo di fare (vedi alla voce Ryan Murphy), sono in grado di interpretare i suoi contenuti nelle profondità e nelle sfumature più adatte ai suoi mondi.
Partendo da Victoria Pedretti, intensa e bellissima, che deve l’inizio della sua fortuna lavorativa proprio al sodalizio con Flanagan e Netflix, e che per lui impersona sempre la fragilità , in tutte le sue forme. Dalla instabile e irrisolta Nellie, motore emotivo delle vicende dei fratelli Crane di Hill House, alla Dani Clayton di Bly Manor, che della sua delicata emotività ha saputo raccontare il lato più combattivo.
Passando poi per Oliver Jackson-Cohen, a cui viene affidato il compito di raccontare la dipendenza, attraverso le sue forme più variegate, che si tratti di droga o di rapporti tossici. Arrivando poi a Henry Thomas, che in tutti i tre universi creati da Flanagan, sembra sempre dover essere il padre che in un modo o nell’altro, riesce a farcela solo alla fine.
O Rahul Kohli che sia nel timido cuoco del Bly Manor Owen, così come nello sceriffo Hassan di Midnight Mass, riesce a infondere una purezza che convince lo spettatore a tifare per lui, sempre. L’eroe buono a cui spezzano il cuore ma non riescono a togliere la speranza. Finendo poi con Kate Siegel, che di Flanagan è anche la moglie, a cui sembra infatti affidare sempre il compito di stregare con il suo magnetismo lo spettatore, dall’altra parte dello schermo.
Chiedersi se davvero ciò che è andato è per forza perduto
O se quello che viene dopo, deve per forza essere qualcosa che racconti ancora di noi, come lo strepitoso monologo mentale recitato da Erin a Riley, tra le braccia del mostro, ci porta a considerare.
Se nella serie The Haunting, Flanagan ci chiede se vogliamo pensare che chi non c’è più, è magari rimasto solo sospeso in un posto oscuro, interpretando in eterno un ricordo sbiadito di ciò che è stato realmente, o se come in Midnight Mass e nelle scelte di Erin e Riley, smettere di essere interamente ciò che eravamo e diventare parte di un tutto collettivo, essere ovunque e nella stessa misura da nessuna parte, non sia preferibile.
Il mondo dell’horror però è solo il palcoscenico oscuro su cui va in scena la disanima più potente che Flanagan sa consegnarci, il filo conduttore che alla fine collega tutti i suoi mondi e che rimane, al termine di ogni stagione, molto più impresso di qualsiasi spavento o aggressione da lui messa in scena.
È l’amore in fondo, il messaggio più intenso che traspare.
Lo troviamo nei monologhi e nelle conversazioni tra le creature di Flanagan ed è proprio l’analisi della sua perdita, che più resta nello spettatore.
Come nel saluto dei fratelli Crane, nella stanza rossa nel cuore di Hill House, così come nel brindisi per Flora fatto da un ingrigito Owen, che solo la malinconica Jamie può comprendere quanta verità racchiuda.
La consapevolezza che a volte c’è molto più amore nella morte che nella vita e che è la mancanza di esso che ne stabilisce il vero valore.
L’amore bruscamente interrotto tra Hugh e Olivia Crane si abbatte inesorabilmente sui rapporti con i loro figli. Che a loro volta, sviluppano una travagliata connessione con l’amore stesso e tutte le sue manifestazioni.
Tutto si distacca, ripropone e infine ricollega all’origine, in uno schema infelice che i ragazzi Crane comprendono solo al termine del viaggio, nel cuore di Hill House.
Che le ferite di uno, sanguinano inevitabilmente sull’altro e che quindi vanno sanate insieme.
E questo Mike Flanagan, riesce a farcelo comprendere semplicemente guardando dieci episodi di una serie su Netflix.