Che i Biffy Clyro fossero una band in costante evoluzioni era chiaro già da tempo. Più inaspettata, però, è quella innata capacità di superarsi e stravolgersi ogni volta stupendo in modo del tutto anticonformista ed eccentrico. E quest’ultimo aggettivo è quello che meglio descrive The Myth of the Happily Ever After.
Con il suo nono album in studio il trio scozzese torna sulle scene a poco più di un anno di distanza da quello stupefacente successo di un A Celebration of Endings che sembrava non poter avere eguali, non almeno in tempi tanto brevi.
Ci penserà allora il galeotto Covid a mettere lo zampino (fortunatamente) nei piani della band consentendogli, tra una chiusura e l’altra, il tempo e l’occasione per tornare sulla sua musica con intensità, concentrazione e quelle energie necessarie (spesso negative in momenti simili) ad avere qualcosa da dire e trasformarlo in arte.
Il risultato ci regala quel The Myth of the Happily Ever After che da raccolta di brani esclusi dal suo brillante predecessore si trasforma in un album dotato di una sua psicologia, di un suo scopo e, soprattutto, di una sua brillantezza. Un lavoro in grado di eguagliare quanto di buono fatto in precedenza anche attingendo a nuovi colori.
Già, perché con The Myth of the Happily Ever ci ritroviamo di fronte a dei Biffy isterici, nevrotici ed eclettici. Quello regalato dal nono lavoro di Simon Neil e soci è un viaggio imprevedibile e forsennato in una commistione di colori ed idee quasi somiglianti ad un’ordinata caoticità.
I Biffy Clyro si destreggiano così tra fumanti e laviche bordate di chitarra ed elettroniche singolari e dal sapore acidulo, passando dalle forsennate frequenze di un alternative che spinge sul pedale dell’acceleratore alle delicatezze di lavori pensati per far respirare l’ascoltatore.
Il cinico e drastico testo della intro DumDum fa da contraltare a delle sonorità delicate e spaziali, il giusto preambolo per il maleducato fervore portato dalla incandescente e allo stesso tempo catchy A Hunger in your Haunt.
La brevissima Denier permane nell’indecisione tra l’orecchiabilità di una ballata e la “rapidità” di un alternative quasi tendente al punk prima di abbandonarsi al colorato e singolare synth pop di Separate Missions.
Con Witch’s Cup i Biffy Clyro decidono di tirare fuori i muscoli mettendo in mostra tutta la loro esperienza e genuina voglia di sperimentare con un pezzo dal taglio giocoso ed imprevedibile, ricco di colori e destinato ad essere uno dei momenti più alti dell’album e della loro discografia.
Il tutto prima di concedere all’ascoltatore una breve pausa con le delicatezze dell’acustica Holy Water, pezzo dalla veste profondamente radio friendly destinato poi ad esplodere sul finale mettendo in mostra alla perfezione il giano bifronte del trio scozzese.
Proseguendo nella riproduzione la qualità si alza e le idee si infittiscono, ritrovandoci così di fronte alle crescenti dinamiche di Errors in TheHystoryof Gods e alle delicatezze di una Haru Urara che non poco strizza l’occhio all’RnB e alle incarnazioni più jazz e contemporanee del pop (ma senza tralasciare le distorsioni).
Il lento inizio di Unknow Male 01 è solo una maschera posta a celare la crescente esplosività ed esasperazione di un pezzo toccante e carismatico. Un turbine di sensazioni che verrà poi stemperato dalle tenerezze di Existed, intima ballata elettronica dall’enorme potenziale radiofonico e “da stadio”.
La chiusura, affidata alla singolare ed avanguardistica Slurpy Slupry Sleep Sleep saluta in modo eccentrico un album isterico e ricco di colori, pregno di differenti idee lanciate su di una tela in modo apparentemente istintivo e folle ma, allo stesso tempo, non privo di maestria.
Dopo il genio di A Celebration of Endings i Biffy Clyro, con The Myth of the Happily Ever After, tornano a stupire producendo musica di qualità enorme, ricca di genuinità, maturità e libertà artistica meritandosi, senza ombra di dubbio, un posto nell’olimpo delle rock band contemporanee.