L’Arminuta è un film del 2021, tratto dal romanzo che nel 2017 valse all’autrice Donatella Di Pietratonio il Premio Campiello. Alla regia troviamo Giuseppe Bonito, già assistente alla regia di Mattia Torre ai tempi di Boris e che di fatto ha portato a termine l’ultimo progetto del compianto autore, Figli. Il film è l’unico italiano selezionato nella sezione principale della Festa del Cinema di Roma, e verrà distribuito nelle sale da Lucky Red a partire dal 21 ottobre 2021.
Trama
L’Arminuta è, in dialetto abruzzese, “la ritornata”. È la protagonista dell’opera ad essere ritornata, o meglio, riconsegnata, alla madre che dice di averla messa al mondo. Cresciuta fino all’età dei tredici anni in una famiglia decisamente agiata, L’Arminuta viene restituita al mondo da cui proviene davvero, fatto di ruralità e povertà .
Alla violenza del distacco si aggiunge quindi quella di un nuovo stile di vita che si impone in tutta la sua tremenda tremenda e cruda verità . Poche pagine di un romanzo di formazione, un anno nella vita di una pre-adolescente figlia di due madri, figlia di nessuna madre.
Cast
SOFIA FIORE: L’Arminuta CARLOTTA DE LEONARDIS: Adriana VANESSA SCALERA: Madre FABRIZIO FERRACANE: Padre ELENA LIETTI: Adalgisa ANDREA FUORTO: Vincenzo STEFANO PETRUZZIELLO: Sergio GIOVANNI FRANCESCO PALOMBARO FIORITA: Riccardo
Trailer
L’Arminuta: recensione
È sempre un processo estremamente delicato quello che porta dalla pagina di un romanzo al grande schermo. Una transizione che nasconde insidie, ed è capace di distruggere anche un grande originale. L’unica via possibile ad un adattamento che riesca compiutamente è che il regista riesca a comprendere nel profondo l’opera a cui si approccia, rispettandola senza trasformarla. Probabilmente, nessuno meglio di Giuseppe Bonito avrebbe potuto raccogliere questo compito, e consegnare un risultato all’altezza.
Il testimone lasciato da Mattia Torre, prematuramente scomparso nel luglio del 2019, era Figli. Una commedia sicuramente brillante, ma per molti versi scomoda, urticante, com’era nello stile del suo autore d’altronde. Il film viene completato proprio da Giuseppe Bonito, che omaggia la carriera intera dell’amico e collega con un film che strappa consensi unanimi.
L’Arminuta è il passaggio inevitabile a tutto ciò che in Figli è implicito e latente, il negativo della foto di famiglia in cui si sostituisce alla pungente ironia l’incidere lento e dolente di un elegantissimo family drama. I protagonisti de L’Arminuta sono quindi i legami, forze inesprimibili e irriducibili ai minimi termini, così complessi da instaurare e coltivare, così semplici da rescindere per sempre.
Il dramma famigliare: il dolore come legame
Tanti autori, dal cinema europeo a quello orientale, hanno tentato di ritrarre le tante famiglie possibili. Si pensi ovviamente a Kore’eda, che ha eletto il genere a guida assoluta della sua cinematografia; è quindi la famiglia il principio unificatore di situazioni drammatiche spesso molto complesse. Non è però sempre possibile ricondurre all’interno del quadro ogni possibile situazione disfunzionale, e L’Arminuta non trova la quadratura di un qualsiasi happy ending di sorta.
La famiglia, nel romanzo della Di Pietrantonio e nel film, è atomizzata. È un ambiente in cui coesistono parallelamente personaggi praticamente incapaci di mettersi in relazione, di comunicare. Forse è proprio l’impossibilità del legame, e non la sua rottura, ad essere il tema centrale de L’Arminuta.
Per restare nell’ambito del cinema orientale, un altro esempio estremo potrebbe essere True Mothers di Naomi Kawase. Il polo più lontano ed opposto da L’Arminuta, in cui un doppio legame intreccia le vite di due donne e madri indissolubilmente legate allo stesso figlio. Ne L’Arminuta abbiamo due madri e l’impossibile risoluzione di questa dicotomia: alla fine la protagonista è figlia di due donne, e di nessuna delle due.
Ad accomunare quindi tutti i personaggi è un sentimento di dolore che come una radice inestirpabile attraversa tutta la narrazione, permeando gli eventi e imprimendosi sui loro volti. Esemplare in questo senso è la magnifica prova di Vanessa Scalera, dolorosa ma tremendamente composta, che con l’espressione incarna una sofferenza di una tale densità e profondità da essere quasi la reale protagonista del film.
La famiglia è ritratta nella sua interezza solo in alcuni momenti rituali. I pasti, il lavoro, le mansioni casalinghe, sono le occasioni per Bonito per sostituire i singoli ritratti con inquadrature più ampie che si articolano su più livelli emotivi. La scena in cui il padre picchia Vincenzo è uno tra questi momenti; ogni personaggio esprime contemporaneamente la propria reazione. Questo non ricostruisce la famiglia, ma piuttosto sottolinea con ancora maggior vigore la frantumazione di questo racconto anti-corale.
La violenza del ritorno all’antico
Difatti la dimensione che si può ascrivere a L’Arminuta è quella del romanzo di formazione. Il violento inizio di una parabola del coming of age, in cui è posto il trauma dello scontro senza spazio per la necessaria risoluzione. Quindi sul dramma famigliare si sovrascrive un dramma più simbolico, in cui il ritorno al mondo rurale assume la potenza di una brutale coercizione.
E, non banalmente, per il modo in cui la protagonista è costretta a cambiare stile di vita. Trasferirsi dall’agio di una villa sul mare, negli interni logori ritratti spesso con dovizia di dettagli, è sicuramente un elemento chiave, ma non è possibile ridurre la questione alla sola superficie.
I due nuovi fratelli de L’Arminuta, Adriana e Vincenzo, sono l’incarnazione di questo mondo incomprensibile in cui la protagonista si trova catapultata improvvisamente. Ed è proprio quest’ultimo in particolare a rappresentare gli assurdi e i paradossi di un mondo fermo al passato da tanti punti di vista. La recitazione di Andrea Fuorto da vita ad un carattere controverso, fatto di fisicità e presenza scenica, e che si fa veicolo di impulsi turpi e ripugnanti. Le scene con Vincenzo rappresentano quindi l’estremo più basso della caratterizzazione di un antico violento e spietato.
Dall’altro lato invece c’è l’incredibile performance di Carlotta De Leonardis, che nel personaggio di Adriana versa una vivacità e un’intensità davvero rare per la sua giovanissima età . Lei è l’altro polo, quello della bellezza e della semplicità di un mondo rimasto ancora puro e incontaminato. Una bellezza che si ritrova, come contrappunto ai grigi degli interni, nella bellezza mozzafiato dei campi lunghi sui paesaggi montuosi in cui la vicenda è ambientata. E il finale in effetti ribadisce come quello tra la protagonista e Adriana sia l’unica connessione davvero positiva nel film.
L’Arminuta: dal libro al film
Il film ha sofferto leggermente, paradossalmente, proprio in fase di scrittura. Nella stesura della sceneggiatura alcuni passaggi del romanzo sono stati esclusi, facendo risultare la narrazione nel film talvolta leggermente sbilenca e disarmonica. Un difetto compensato dal guadagno della dimensione sonora. Le musiche composte da Carmelo Travia e Giuliano Taviani, già autore di quelle per Figli, arricchiscono e amplificano gli eventi e la loro portata emotiva.
Nonostante questo però il coinvolgimento dello spettatore è quasi sempre rimandato. Questo non è da attribuire ad una conduzione asettica del film, quanto all’equilibrio formale e sostanziale che sceglie. L’Arminuta è sospeso tra questi due mondi che si avvicendano senza che mai uno prenda il sopravvento sull’altro, senza che ci sia un reale sbilanciamento. Il benessere e la vita agra, la modernità e l’arcaico, la cultura e l’educazione contro la tensione al primitivo, e quindi la lingua e il dialetto.
La protagonista è nel centro di forze opposte che si scontrano, risultando in un irrisolto straniamento. Ed è in fondo l’unico aggettivo che si può attribuire a l’arminuta: quella di essere un’estranea, una ricca tra i poveri, una brillante studentessa trai braccianti, ma allo stesso tempo una ragazza ripudiata dall’ambiente in cui è cresciuta e rispedita alla sorgente del suo sangue. L’Arminuta è quindi un ritratto articolato, praticamente naturalistico nel suo silente realismo, che eredita tutta la forza del romanzo in una riuscitissima operazione di trasposizione cinematografica. Una produzione italiana che convince a pieno per la sua purezza e la sua potenza.