Dopo la ben poco convincente esperienza di Distance Over Time i Dream Theater, ormai giunti al loro release in studio numero quindici, tornano sulle scene con A View from the top of the World, album in ascita il prossimo 22 ottobre sotto l’egida della Inside Out Music.
Se la sperimentazione orchestrale e profondamente cinematic/musical di The Astonishing, nonostante molti nasi storti, si era rivelata un esperimento azzeccato e di enorme pregio (seppur imperfetto), con Distance Over Time la prog band statunitense aveva probabilmente toccato il punto più basso della sua folta discografia.
Una zona oscura che, non ce ne vogliano i fan più accaniti, sembrava una lapide sulla carriera in ogni caso longeva di John Petrucci and co. In fin dei conti, però, quello compiuto nell’ormai distante 2019 si rivelerà solo un momentaneo passo falso.
Un passo avanti… ritornando al passato
Un momentaneo sbilanciamento che con A View From the top of the World la band riesce a riportare in asse risultando in un prodotto musicale ben più raffinato e riconoscibile del suo predecessore (seppur non privo di difetti e mancanze).
Con il suo release numero quindici il quintetto statunitense torna a fare ciò che sa far meglio ripescando a braccia aperte in tutti i suoi trent’anni (e più) di carriera, rimescolando le carte e dando vita ad un prodotto variegato quanto estremamente riconoscibile.
Se di certo non originale o innovativo (ma non è questo di certo che chiediamo ad una band ormai più vicina ai sessanta pro capite che altro) con A View from the Top of the World si torna ad ascoltare un progressive curato, dettagliato, divertente e non privo di colori.
Nonostante ciò, come già detto, non sono lontani gli spettri tipici del lavoro di una band che dopo anni di sana carriera cade nell’autocitazionismo e nell’abitudine, mancando talvolta di estrarre il massimo dalle proprie idee più per routine che, probabilmente, per pigrizia.
Difetti che possiamo accettare di buon grado in un seminato generale nel complesso positivo e che vede i Dream Theater tornare a quei “raccolti” tipici della seconda fase della loro carriera, quella compresa nel primo decennio degli anni duemila.
Così torniamo ad ascoltare pezzi dalla durata massiccia con una forma canzone più standard del tutto accantonata (gli episodi più brevi non vanno al di sotto del minuto e mezzo) in favore delle tipiche strutture dilatate e ricche del prog che ha fatto le fortune della band.
A View from the Top of the World: un ritorno alle vecchie abitudini
In una terra di mezzo tra melodie e durezze, tra tecnica e raffinatezza, A View from the Top of the World si muove su diverse tonalità e sfumature, passando dall’enorme energia della carismatica Answering The Call (pezzo da Greatest Hits e apice dell’album) ai colori vivaci del prog rock “Rush style” di Transcending Time.
Se l’opening di The Alien (pezzo più debole della raccolta) paga lo scotto di sezioni vocali ben poco interessanti e scontate nonostante idee strumentali talvolta pregevoli, con le massicce Sleeping Giant e Awaken the Master tornano a farsi sentire i Dream Theater più virtuosi, duri e tecnici.
I circa dieci minuti di riproduzione delle tracce sono un susseguirsi di riffing massicci e mirabolanti aperture corali, il tutto condito dagli immancabili virtuosismi strumentali (alle volte forse ridondanti) e da un taglio epico e poderoso classico dei Theater di album come A Dramatic Turn of Events e Black Clouds and Silver Linings.
Risulta tremendamente fragile, invece, la suite e title track A View from the Top the World. Pezzo dalla chiara impronta epica e cinematica, nonostante alcuni spunti interessanti fallisce nel riuscire a catturare l’attenzione dell’ascoltatore risultando alle volte ridondante ed eccessivamente tirato.
Complice forse delle sezioni vocali tutt’altro che irresistibili ed un ritornello che non riesce assolutamente a lasciare il segno, in una generale assenza di “carisma” quello che doveva essere l’episodio di maggior peso dell’album si rivela in una chiusura incerta e zoppicante, quasi forzata e poco naturale.
Di fatto quella mancante nella title track è una naturalezza che, invece, nel resto dell’album sembra essere tornata fortemente nelle composizioni e nei modus operandi della prog band americana, risultando in un prodotto finale dall’aspetto genuino, sincero ed estremamente efficace.
Con il supporto di una produzione di ottimo livello, il prodotto finale risuona così “Dream Theater” nella maniera più schietta e, anche non stupendo, riesce a soddisfare e saziare, richiedendo e meritando diversi ascolti e aggiungendo elementi interessanti ad una già folta e raffinata discografia.