Nel caldo e assolato maggio della Costa Azzurra, Krzysztof Kieślowski marcia trionfale verso la palma d’oro. Siamo nel 1994, e il regista polacco è senza dubbio tra i favoriti nella kermesse che ogni anno, a Cannes, ospita le primizie del cinema mondiale. D’altronde il suo Film Rosso corona la trilogia dei colori, e quel riconoscimento avrebbe assunto i connotati di un omaggio all’intera carriera di uno degli autori più importanti di sempre. Invece nella cerimonia di chiusura Clint Eastwood incorona Quentin Tarantino: Pulp Fiction è già la consacrazione di un regista all’epoca poco più che trentenne.
Già questo è un dato chiave, l’espressione di una rottura e l’avvento di una profezia, che segnò in modo irreversibile la storia del cinema. Con la beffa della dissacrazione, con la potenza del genio, Quentin Tarantino impose prepotente un idea di cinema che segna inevitabilmente un prima e un dopo.
Ad oggi l’allora giovane e dirompente regista ha declinato la propria visione in dieci lungometraggi. In essi la sua ferocia rivoluzionaria si è espressa nelle forme di uno storytelling implacabile, capace di dare vita a personaggi indimenticabili, a imprevedibili rovesciamenti della Storia e a sequenze entrate di diritto nell’immaginario collettivo. C’era una volta a…Hollywood è così la chiusura di un lungo percorso del quale Pulp Fiction resta inevitabilmente il manifesto più lampante. Una vera e propria dichiarazione di poetica, che nasconde dietro il pulp l’anima del Cinema nella sua essenza più pura.
Banalmente, Pulp Fiction è la bandiera di tutta la cinefilia mondiale: parlarne può sembrare superfluo, ridondante. Eppure oggi non è solo l’anniversario dell’uscita del film nelle sale statunitensi. Oggi inizia ufficialmente la sedicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, che vedrà proprio Quentin Tarantino protagonista di uno speciale Incontro Ravvicinato in cui riceverà il premio alla carriera. In questa doppia ricorrenza, quindi, comprendere nel profondo perché Pulp Fiction sia una pietra angolare del Cinema è l’opportunità per arrivare preparati all’incontro con questo titano della Settima Arte.
Pulp: massa soffice, umida
Grumi di sangue, cervella spappolate: non è questa la polpa a cui però ci riferiamo, almeno per questa volta. Benché rappresenti una cifra che qualifica Tarantino presso il grande pubblico, il regista è irriducibile alla sola violenza sensazionale e spettacolarizzata. Ne ha dato prova inconfutabile con il suo ultimo capolavoro, ribaltando le aspettative del suo pubblico e rimandando lo splatter fino al punto culminante finale. Confermando, inoltre, in maniera inequivocabile chi sia davvero il protagonista del suo cinema.
E nessuno, se non il Cinema stesso, abita la filmografia di Tarantino, trasformandosi appunto in una materia fluida e variegata da manipolare attraverso citazioni, maniere e virtuose rielaborazioni.
Tarantino, prima che regista, è un enciclopedico cinefilo, e con Pulp Fiction ne da una fulgida dimostrazione. Le molteplici ascendenze che fanno di Pulp Fiction un crocevia della storia del Cinema attraversano generi e cinematografie, condensandosi in un’opera che quindi è, innanzitutto, un’aperta dichiarazione d’amore a quei film e quegli autori che lo hanno ispirato e incantato sin da giovane.
Cinema come massa informe, malleabile
Rivive quindi la sfrontatezza della nouvelle vague nel Godard di Vivre saVie, lì dove poche scene prima invece i twist di Mia e Vincent ci riportavano alla mente chiaroscurali memorie felliniane. Tarantino non è però solo il genio che ruba, il genio che copia. Tra i modelli del noir classico e del gangster movie, il regista dimostra di non limitarsi a citare. Dà prova di aver compreso nel profondo le strutture portanti del cinema e le forme in cui si esprime.
Così sono i primissimi piani che rimandano all’ossessione di Sergio Leone per i dettagli, modello tra i modelli, e le fibre hitchcockiane che attraversano l’opera. Il maestro del brivido non è solo l’inventore di quel dolly zoom che ci mostra Mia in procinto di andare in overdose, ma è anche l’uomo che ha coniato il termine MacGuffin. Possiamo leggerlo nelle leggendarie conversazioni che Truffaut ha intessuto con Hitchcock. Un MacGuffin non è altro che un pretesto narrativo, un motore immobile attorno al quale le vicende assumono significato per i protagonisti dell’opera, ma non per lo spettatore, che ne rimane estraneo. Polarizza la sua attenzione senza mai svelargli la sua vera natura: cosa è più MacGuffin, allora, della valigetta di Marcellus Wallace?
Pulp Fiction e il cinema di genere
Tarantino trasforma quindi la materia filmica in un magma fluido che sembra inghiottire indistinto. Eppure è inevitabile riconoscere i suoi grandi amori, e come lo portino ad incappare sempre in se stesso. Già dal suo autentico esordio, Le Iene, Tarantino aveva eletto due modelli su tutti, Cani arrabbiati di Mario Bava e La cosa di John Carpenter. Motivo, quest’ultimo, a cui sarebbe ritornato con The Hateful Eight, rielaborando ulteriormente le forme del classico carpenteriano e il suo stesso film. In questo circolo virtuoso, è quindi il cinema di genere a farsi filo conduttore.
Di nuovo ce lo ribadisce con il suo ultimo film. È l’amato cinema di serie B a salvare la principessa della Old Hollywood dall’efferata Manson family. Ovviamente però Pulp Fiction funge da prodromo e da modello anche in questa ossessione che è la cifra più immediata in cui riconoscere Quentin Tarantino. Quindi, di nuovo, il maestro Mario Bava, modello internazionale che con il suo Diabolik settò gli standard audiovisivi di un certo cinema di genere. E ancora tutta la narrativa criminale, senza il filtro dell’elaborazione operata dalla New Hollywood, ma piuttosto ricondotta alle sue fondamenta più esplicite, e che trova nell’exploitation la sua sola ragion d’essere.
L’operazione tarantiniana però, nuovamente, si spinge più in là della semplice riproposizione di luoghi comuni, visitati e abusati. Il modo in cui interviene sul tempo narrativo, disattendendo e disorientando continuamente lo spettatore, quasi riscrive i canoni dei generi che di volta in volta visita. Nell’intreccio degli eventi si perdono alcune logiche naturali, e ne vengono poste di nuove attraverso la mirabile arte della scrittura per il cinema, che più di ogni altra eleva Tarantino tra gli autori della sua generazione.
Fiction: non cosa raccontare, ma come raccontarlo
Questa prima considerazione ci porta a ricordare il motivo per cui Pulp Fiction è un film di assoluto prestigio. Dove Tarantino trova la propria dimensione di assoluta originalità, dove riesce a riscrivere le regole del gioco. Il premio Oscar alla migliore sceneggiatura originale è il riconoscimento che questo film meritava, ma che comunque non esaurisce la portata della sua innovazione.
Non è azzardato paragonarlo con l’invenzione narrativa di Quarto Potere. Il capolavoro di Orson Welles si impose sui modelli classici di narrazione, secondo un procedimento non-lineare che mostrò nuove vie. Tarantino accentua ancora di più la rottura, scegliendo quella strada così post-moderna in cui non solo i linguaggi e i riferimenti si miscelano, ma spesso vengono messi in discussione.
Così, togliendo valore al nesso di causalità, Tarantino demanda al montaggio ellittico il ruolo di principio unificatore. Nella dissonanza tra la struttura a capitoli e lo svolgimento non-lineare, l’intreccio risulta svelarsi progressivamente attraverso le corrispondenze tra le tre storie portate in scena. Le situazioni vanno quindi non a sommarsi, ma a collimare attraverso un lavoro sottilissimo di incastri e rimandi.
Il paradosso è che nel violare ogni possibile grammatica del cinema narrativo classico, Tarantino in realtà realizza il suo fine ultimo. Lo spettatore è al centro della visione, perché per quanto estraniato, svolge un ruolo essenziale nella ricostruzione della vicenda. Ed è sicuramente nella sua volontà di non risultare criptico che Tarantino è riuscito ad incantare tutti i tipi di pubblico.
Modelli ed epigoni
Un puzzle plot che gratifica e conquista, e che inevitabilmente ispira. Pulp Fiction diventa così un’opera meta-narrativa, che oltre a narrare propone a sua volta un modello di narrazione. È chiaro che ci siano maestosi antecedenti, a cui senza dubbio Tarantino ha guardato con ammirazione: su tutti America Oggi, di Robert Altman.
Allo stesso tempo però Pulp Fiction è servito da schema a registi come Doug Liman o Guy Ritchie, che si sono ispirati dichiaratamente. Il primo con il suo Go, il secondo con il più riuscito Lock, Stock and Two Smoking Barrels, che adatta le spirali tarantiniane alle atmosfere di un thriller londinese.
Anche quando l’ispirazione non è esplicita, non è possibile non riconoscere a Pulp Fiction di essere capofila di un filone fondamentale del cinema contemporaneo. Un filone a cui appartengono senza dubbio il Paul Thomas Anderson di Magnolia, tra i più altmaniani del regista, e AlejandroGonzález Iñárritu di 21 Grammi. Tutti film accomunati dalla consapevolezza post-moderna della fine delle grandi narrazioni, e che hanno trovato nuove soluzioni nella destrutturazione.
Pulp Fiction: il mito che si fa mito
Sembra di ribadire l’ovvio quando si parla di Pulp Fiction. Eppure alla fine sono davvero tanti i motivi che ci spingono a ricordarlo tra i film più importanti di sempre. Tutti però si possono riassumere in quell’unico passaggio fondamentale, che rappresenta la sfida fondante della filmografia di Quentin Tarantino. La rottura tra l’underground e il cinema d’autore, e il tentativo di metterli in comunicazione, rappresenta il postulato che ha guidato Tarantino in tutta la sua carriera.
Il superamento delle dicotomie tra pop e classico, tra cinema di genere e grande cinema, avviene battendo la via del post-moderno, che smonta gli assoluti relativizzando ogni possibile coordinata.
Ecco perché la vittoria della Palma d’oro risuona ancora come un irripetibile coincidenza storica. In essa si trasforma in atto tutto ciò che nel film era una dichiarazione poetica in potenza. Ed è attraverso questi atti che il mito del cinema trasfigura, trasformando di fatto Tarantino a sua volta in un mito. Un autore imprescindibile, che con questo film ha scosso la Settima Arte dalle fondamenta e ha posto le basi di un’intera carriera.