Nel 2018 arriva la consacrazione per Del Toro. Il suo La Forma dell’Acqua vince il Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia e in seguito anche il premio Oscar, award conferito anche allo stesso regista . La trama narra della complicata storia d’amore tra un’inserviente muta, impiegata in un laboratorio di ricerca americano durante la guerra fredda, ed una creatura marina, catturata nelle acque dell’Amazzonia.
Come accade tipicamente nel cinema di Del Toro, questo film nasconde un messaggio potente tra le righe di una trama molto semplice. Infatti, dietro ad uno script ai limiti del banale, basato sulla forza dell’amore, il cineasta porta avanti la sua lotta contro il razzismo e la discriminazione. Ne La Forma dell’Acqua non è solo la creatura a essere diversa, incompresa, seviziata come cavia da laboratorio, ma sono visti come diversi sono anche la protagonista muta e il suo coinquilino omosessuale. Quest’ultimo, in una scena davvero intensa, viene umiliato da un barista a causa del suo orientamento sessuale.
Il film conquista con una serie di sequenze vivamente stupefacenti. Le scene sottomarine, nelle quali i nostri due innamorati interagiscono, sono state curate con una tale maniacalità da farci dimenticare che i due personaggi siano sott’acqua, e farci quasi immaginare che stiano danzando. La fotografia, come già visto nel precedente lavoro del regista, Crimson Peak, gioca sul contrasto di colori, in questo caso verde, azzurro e rosso. Un contrasto cromatico così ben strutturato che assume una valenza narrativa. Plauso agli attori protagonisti, Sally Hawkins e Doug Jones, che esprimono in ogni frame l’amore scoccato tra i due. Il gioco di sguardi tra i due, ad esempio quando lei gli dona il primo uovo, o il loro comunicare col linguaggio dei segni, creano delle sequenze memorabili, capaci di raccontare un’incredibile quantità di cose senza ricorrere all’uso della parola.
Menzione speciale per la creature anfibia. Essa è ispirata, per stessa ammissione di Guillermo Del Toro, al protagonista del Mostro della Laguna Nera, film del 1954 di Jack Arnold, a cui il cineasta ha voluto rendere omaggio. Secondo lui, infatti, La Forma dell’Acqua è il giusto finale che lui ha immaginato per Gill-Man e Kay, protagonisti della pellicola di Arnold.
5° La spina del Diavolo, 2001
Questo film fa parte di una trilogia mai completata, che comprende Il Labirinto del Fauno e un altro film mai prodotto. Si tratta di pellicole in lingua spagnola, che esprimono tutta la poetica del cineasta messicano, composta da elementi fantastici, talvolta horrorifici, inseriti in un intreccio che comprende eventi reali della Storia spagnola, allo scopo di lanciare un messaggio. Messaggio che, in questo film, arriva forte e chiaro.
La pellicola si svolge in un orfanotrofio durante la guerra civile spagnola del 1939. Qui alcuni bimbi vengono protetti da Carmen e Cesares, che in segreto custodiscono dei lingotti d’oro che servono a finanziare la fazione anti franchista della rivolta. Il film dunque ruota intorno al difficile percorso di crescita degli ospiti dell’orfanotrofio, luogo dove sembra essere confinato lo spirito del piccolo Santi, morto poco prima dell’arrivo del nostro protagonista, Carlos.
Del Toro, come farà in modo ancora più efficace ne Il Labirinto del Fauno, riesce a raccontare una storia a tratti dolce, ma con la crudezza che si addice ad un periodo di guerra. Basti pensare che la scena di apertura del film ci mostra la morte del piccolo Santi, disteso a terra col cranio fracassato. Il regista messicano ci fa capire fin da subito che non scenderà a patti e racconterà la vita di quell’orfanotrofio senza addolcimenti di sorta.
Del Toro non viene meno alla sua promessa mostrandoci, con una fotografia estremamente scura e con lenti movimenti di macchina, che assumono la prospettiva dei bambini, tutto ciò che accade in quel luogo, senza privarci di nulla, neanche delle vicende più atroci. Come in Crimson Peak, il fantasma di Santi, unico elemento fantastico in una storia estremamente vera e concreta, è un espediente narrativo, un elemento quasi puramente visivo, che Del Toro posiziona nel suo film per dare maggior potenza alle immagini. Infatti il fantasma appare poco nell’opera, se non quando serve a rimarcare eventi sui quali il regista vuole polarizzare la nostra attenzione.
La Spina del Diavolo, titolo che rimanda ad un altro elemento estremamente potente, al quale Del Toro dà molta importanza, è uno dei lavori dove il cineasta esprime tutto sé stesso, raccontandoci una storia dura, ma con la solita dolcezza che riesce a far passare anche il messaggio più cattivo senza turbare mai più del necessario. Semplicemente imperdibile.