Ecco perché Daniel Craig è il miglior James Bond di sempre

Daniel Craig è il miglior James Bond di sempre? Per noi la risposta è sì!

James Bond
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La storia di James Bond parte da lontano, dalla penna di Ian Fleming nell’ormai lontano 1953, con Casino Royale, e proseguendo per un decennio abbondante fino a Daniel Craig.

Poi vari passaggi di testimone fino all’arrivo della prima trasposizione filmica nel 1963 dopo innumerevoli tentativi fermati sul nascere. A vestire gli eleganti abiti del protagonista, Sean Connery, colui che da sempre è (stato?) considerato il miglior Bond di sempre. Almeno fino all’avvento di Daniel Craig, colui che sta facendo vacillare il trono del compianto attore scozzese.

A prestare il volto all’agente più famoso di Sua Maestà, troviamo nel corso del tempo sei attori differenti, accomunati dall’essere rigorosamente appartenenti al Regno Unito. E con loro, ogni James Bond acquisiva una sfumatura particolare e volta a distaccarsi quanto possibile dai crismi dettati da Sean Connery.

Eppure, le sfumature non sempre portavano a risultati soddisfacenti, anche a causa del film stesso. Basti pensare a Timothy Dalton o Pierce Brosnan, in quelli che sono probabilmente i peggiori film mai fatti su Bond. Sei film, ripartiti rispettivamente in due e quattro, che causarono un tonfo alla saga James Bond.

È risaputo però che l’icona James Bond non può morire nella memoria collettiva filmica del pubblico generalista e ancor meno degli aficionados. Ecco quindi che lo scottante rilancio è toccato proprio a Daniel Craig, nel 2006, con una serie di cinque film che hanno alzato l’asticella qualitativa rispetto a quanto visto tra il 1987 e il 2002. E che di conseguenza hanno portato Daniel Craig ad essere il miglior James Bond di sempre.

Il ciclo Daniel Craig ha di fatto posto un punto rispetto quanto visto prima e contestualmente voltato pagina. Se da un lato ha dato una risposta alla domanda di innovazione, rispetto forma e contenuto, dall’altro ciò che questa saga ha messo in scena ha mostrato un qualcosa di completamente nuovo, rispetto ai venti film precedenti al Casino Royale del 2006.

Daniel Craig Anno Zero, quindi?

Giunti alla sua ultima apparizione, possiamo apertamente dire di sì. Sin dalla sua prima comparsa, l’attore britannico ha dato una nuova visione del personaggio, modificando il fascino intrinseco che ha sempre avuto, grazie anche ad una piccola e significativa aggiunta: la debolezza. Una debolezza che rende umano un superumano, una debolezza che soprattutto evolve di pari passo agli eventi che tartassano Bond.

Tutto gira intorno a un processo decostruttivo di quella che fino ad oggi è sempre stata considerata un’icona dell’action con tutti i crismi del caso. Indistruttibile, infallibile. E in più seducente “sciupafemmine”, autore di simpatici siparietti con le sue Bond Girl.

Memorabile in tal senso la sequenza di Thunderball in cui la Paluzzi, immersa in una vasca da bagno, chiede a Bond qualcosa da mettersi addosso e lui gli passa furbescamente un paio di scarpe.

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L’humor non manca certo al Bond di Craig, questo è evidente, così come le Bond Girl. C’è un però.

Un grandissimo però che assume le forme dell’amore, sentimento al quale nessun agente segreto può cedere. Eppure Daniel Craig ci casca, due volte. Con Eva Green prima, con Lea Seydoux poi. Un amore ingombrante, che cattura James Bond e lo tiene stretto a sé. E che cede solo al nemico e alla morte.

La scomparsa di Vesper è un trauma mai superato, che cruccia James Bond, tra sensi di colpa e disperazione mascherata dal suo sguardo di ghiaccio. Uno sguardo che non lascia mai trasparire nulla ma che al tempo stesso ci dice molto su suo stato d’animo, sulla sua stanchezza. E sul suo essere fallibile di fronte al nemico.

Impossibile dimenticare la sequenza d’apertura di Skyfall, forse il miglior film su 007 mai fatto e sicuramente il più significativo dell’era Daniel Craig. Dopo il classico incipit, Bond cade in acqua, stremato e sfinito, al punto da sembrare morto. Un tuffo che funge di fatto da raccordo ai titoli d’apertura, accompagnati dalla meravigliosa voce di Adele.

Questo suo discendere verso l’abisso presta il fianco a moltissime speculazioni su metafore e simbolismi. Speculazioni che trovano anche riprove fattuali, visto ciò che accade in Skyfall. Un film in cui l’icona Bond di cui sopra inizia ad essere messa in dubbio anche da chi dovrebbe appoggiarlo ma soprattutto da sé stesso.

James Bond perde la sfida più grande. E il nemico non è il classico villain, bensì il protagonista stesso: James Bond. Tentando la strada del reintegro, Bond fallisce l’ostacolo più grande, quello dei test. E sebbene gli imperturbabili occhi glaciali, qualcosa si è mosso in lui. Un qualcosa che viene ancor di più agitato come il suo Martini in quel della National Gallery di Londra.

Q, il novello addetto dell’MI6, discute con Bond, seduto su un divanetto. Qualcosa sta cambiando, i tempi stanno cambiando. 007 non riesce a stargli dietro e forse andrebbe dismesso, come si fa con i grandi, come si è fatto con la valorosa nave da guerra Téméraire, dipinta da Turner.

Mai era accaduto in ventitré film di veder messa in dubbio la bravura di James Bond. Sin dal primo, fino all’ultimo di Brosnan, Bond dettava (e rispondeva) stilemi precisi rispetto l’eroe dei film spy-action. Un eroe senza macchia né paura, sicuro di sé stesso, privo di debolezze e che raramente periva sotto ai colpi dei nemici. Fino all’apoteosi Brosnan in cui l’action e i suoi crismi facevano da padroni incontrastati dei film.

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Un eroe contro un arcinemico da sfidare all’ultimo sangue, ma non prima di passare sotto l’adrenalinico rischio di morire e quindi perdere lo scontro per la salvezza del mondo. Questa era la base su cui ogni film di James Bond doveva prendere spunto per poi tessere le ragnatele della narrazione.

L’avvento di Daniel Craig inizia dunque un processo di svecchiamento, osservando la piega presa del cinema contemporaneo e seguendone le sue orme. L’icona inizia ad essere discussa,mischiando le carte in tavola quanto più possibile, tanto per ciò che concerne James Bond quanto per ciò che invece riguarda il suo rapporto con il villain.

Archiviata la guerra fredda, onde evitare di cadere di nuovo in un errore anacronistico, il nemico assume le forme tentacolari della SPECTRE. Un volto preciso, quello di Christoph Waltz, che però si insinua ovunque ci sia James Bond, anche nella stessa MI6. E inevitabilmente il rapporto classico tra eroe e antagonista assume sfumature interessanti.

Gli scambi di battute tra le due forze del film arrivano a toccare temi che vanno ben oltre il racconto del piano per conquistare il mondo mentre Bond rischia la vita. Basti pensare al monologo di Raoul Silva nella sua isola decadente e ipertecnologica. O ancora a Safin nel crudo finale di No Time To Die. Tête-à-tête in cui i due si scoprono di fronte all’altro, giocando prima sulla dialettica e poi, eventualmente, sul fisico. In fin dei conti, è pur sempre un action.

Tirando dunque le somme, notiamo come siano molteplici i fattori che rendono questa saga di cinque film la migliore tra tutte le altre. Il che, doveroso ricordare, non significa che le altre siano brutte. Ciò che oggi forse viene dato un po’ per scontato, è anche il “semplice” concetto di serialità cinematografica. O di Universi, per citare i cinecomics.

Anche qui, questo ciclo di James Bond ha rilanciato un universo verticale sotto forma di serialità cinematografica. Film apparentemente slegati ma che seguono due filoni ben precisi. Da un lato, quello narrativo, legato alla crescente presenza della SPECTRE come deus ex machina delle storie. Dall’altro, quello legato al personaggio James Bond e alla sua evoluzione costante, film dopo film.

Un James Bond che si innamora, che lotta ma perde, che si pone dubbi e domande su sé stesso. Che maschera le insicurezze ostentando una finta sicurezza. Un James Bond umano e imperfetto, in altre parole. E proprio questo motivo, il James Bond perfetto.