Tratta dall’omonimo manga di Haro Aso, Alice in Borderland è una serie live action in otto episodi che miscela elementi fantasy con il mondo dei videogiochi, portando entrambi a una massima esasperazione che fa del prodotto seriale un piccolo gioiello da non perdere.
Una serie che – soprattutto visto e considerato il successo di Squid Game – val bene una visione, anche solo per ritrovare il tema del death e survival game, che in questi giorni va per la maggiore.
Di cosa parla Alice in Borderland?
La serie ruota intorno a Ryohei Arisu (un cognome che è la “traduzione” giapponese di Alice, da qui il titolo), è un ragazzo che sembra non avere altro interesse nella vite se non giocare ai videogiochi.
Dopo aver abbandonato l’università e aver accettato di essere considerato dai suoi familiari uno sfigato che non ha nessun futuro.
In realtà, però, Arisu è un ragazzo molto intelligente, pieno di istinto e di logica, che proprio grazie ai videogiochi ha sviluppato la capacità di risolvere qualsiasi problema o enigma si affacci sulla sua strada.
Un giorno, mentre è a bighellonare coi suoi amici, Arisu è costretto a nascondersi dalla polizia: quando però i tre riemergono dal proprio nascondiglio si rendono conto che la Tokyo che hanno davanti è ben diversa da quella di un attimo prima.
La città appare deserta e prima che se ne rendano conto i tre vengono “trascinati” a partecipare a un gioco di sopravvivenza, fatto di prove che sanciranno la differenza tra vivere e morire. Man mano che i giochi procedono Arisu e i suoi amici si accorgono di non essere gli unici ad essere andati incontro a un tale destino.
Proprio come avviene nel caso di Squid Game, anche Alice in Borderland è, in qualche modo, un contenitore di storie che odorano di deja-vu. Se nel caso della serie coreana si aveva a che fare con rimandi più o meno espliciti a serie come Battle Royale e Hunger Games – prodotti che sono riscontrabili anche in Alice in Borderland – la serie giapponese sembra essere molto più legata – almeno per quanto riguarda le premesse – al manga Gantz, firmato da Hiroya Oku.
D’altra parte va sottolineato che questo genere di prodotti non mirano mai alla più completa originalità: lo scopo non è vestirsi di un ambito completamente nuovo, quanto quello di creare un universo in cui lo spettatore si perda, sviluppando il desiderio di averne sempre di più.
Una sorta di dipendenza dal binge watching che in Alice in Borderland funziona perfettamente, a causa della struttura dell’opera che punta a presentare prove sempre più difficili con l’avanzare degli episodi, di modo che l’attenzione dello spetattore cresca in modo proporzionale alla tensione messa in scena.
Ed è proprio nella costruzione di questa tensione e del ritmo tipico di un ottimo survival game che si deve cercare il lato più riuscito della serie. Sebbene alcuni cliffangher siano chiaramente piazzati solo per invogliare lo spettatore ad andare avanti, in generale la narrazione è di quelle che ti impedisce di distogliere lo sguardo.
Alice in Borderland è inoltre una serie che non si risparmia sulla violenza e che mette in scena un mondo dove è proprio la violenza a dettare le regole. La sopravvivenza non passa tanto il bisogno di unirsi a degli alleati, quanto alla necessità di fare qualsiasi cosa per uscire dall’incubo.
Un tema, questo, che viene condiviso anche da Squid Game, sebbene la serie coreana rifletta un po’ più sul lato oscuro dell’umanità, mentre Alice in Borderland ci sguazza con meno nobiltà.
Inoltre la serie è come divisa in due “archi”: se la prima parte è decisamente più votata all’azione a tutti i costi, la seconda punta più al lato riflessivo, reso possibile anche dalla presenza di personaggi ben strutturati e decisamente credibili.
Tuttavia questo taglio netto tra le due anime della storia in più di un’occasione rischia di far smarrire lo spettatore, che si trova sballottato tra due generi, quasi senza continuità di logica.
Nonostante questo, però, Alice in Borderland è una serie girata in modo eccelso che a un certo tipo di trash tipico delle serie nipponiche controbilancia un’attenzione per il reparto tecnico, di modo che lo spettatore si trovi davanti a un mondo che fa paura proprio perché potrebbe essere possibile.