Scritta e diretta da Dong-Hyuk Hwang, Squid Game è la serie coreana in nove episodi, disponibile su Netflix che, grazie al passaparola, sta diventando un vero e proprio fenomeno internazionale, al punto da competere con i numeri già da record di serie come Bridgerton e La casa di carta.
Miscelando sapientemente elementi distopici con un senso della violenza mai gratuita e mai volgare, Squid Game è riuscita a tenere con il fiato sospeso milioni di spettatori, grazie anche a un’ottima costruzione del ritmo e della tensione.
E mentre in rete cominciano a fioccare le prime – e non così improbabili – teorie dei fan che cercano di dare un senso a un mondo dominato dal caos, Squid Game continua a scalare le classifiche dei prodotti più visti nei cataloghi Netflix di svariati paesi.
Squid Game, la trama
Seong Gi-Hun (Jung-jae Lee) è un uomo che non ha nulla nella vita. Il suo matrimonio è naufragato, non riesce a prendersi cura di sua figlia e vive ancora alle spalle dell’anziana madre, spesso rubandole i soldi.
Il tempo, Gi-Hun lo passa a scommettere sui cavalli e a cercare di scappare agli usurai che chiedono indietro i soldi dati in prestito.
Un giorno, mentre è alla stazione, Gi-Hun viene avvicinato da un signore ben vestito (Gong Yoo) che gli propone un gioco per bambini: se vince, Gi-Hun potrà stringere tra le mani una bella somma di denaro.
Quando il gioco si esaurisce, con la vittoria di un incredulo Gi-Hun, lo sconosciuto gli consegna un biglietto da visita. Reso ingordo dalla vincite, Gi-Hun chiama il numero sul biglietto e, prima che se ne renda conto, si trova – dopo essere stato drogato – all’interno di un grande stanzone con centinaia di altre persone.
Tutte sono lì per partecipare a sei giochi da bambini e vincere un premio in denaro che fa gola a molti. I concorrenti sono i più disparati: da un anziano malato di demenza (Yeong-su Oh), fino a un vecchio amico d’infanzia del protagonista (Hae-soo Park).
Nessuno di loro, però, può immaginare che quello a cui stanno andando incontro è un vero e proprio gioco al massacro.
Squid Game, la Recensione
“Fatti non foste a viver come bruti”
Squid Game è una serie che funziona dal primo episodio perché riesce a partire da un presupposto davvero interessante: degli uomini adulti, civilizzati e più o meno acculturati si trovano rinchiusi insieme per affrontare una sfida incentrata su dei giochi per bambini.
Dalle biglie di vetro a Un, due, tre stella, passando per i giochi tipici della cultura coreana che sono estranei a un popolo occidentale, la serie mette in scena una sorta di amarcord che, tuttavia, non viene accompagnato dai classici sentimenti di nostalgia o di tenerezza con cui si è soliti pensare agli anni della fanciullezza. Al contrario tutto viene inondato di un senso di inquietudine, un rovescio della medaglia che porta a galla ciò che è marcio ma anche istintivo.
È fin troppo facile, dunque, vedere nella serie una sorta di riflessione sulla condizione umana. Se il filosofo Hobbes diceva che Homo, Homini Lupus, Squid Game sembra essersi spinto ancora più in là, riflettendo su come l’uomo – inteso come essere umano – sia facile vittima delle sue ambizioni e delle sue paure, e di come sia facile per lui cadere nello stato primordiale della sua natura, arrivando a sfidare la morte o a sporcarsi le mani pur di avere una qualche forma di potere tra le dita.
Mentre lo schermo si riempie di schizzi rosso cremisi e l’accostamento abominevole tra giochi per bambini, omicidi e vecchie filastrocche costruisce un universo diegetico aggiuntivo che spaventa e affascina lo spettatore, Squid Game mette in prima fila le debolezze umane, l’indifferenza dilagante che, proprio in questo periodo storico è diventato uno dei mali che affliggono la società.
Squid Game è una serie brutale, violenta, che fa male perché vederla significa anche guardare nell’abisso che ognuno porta dentro di sé, che ne sia consapevole o meno. È una serie che ti impone di continuare a guardare questo gioco al massacro e che, allo stesso tempo, ti obbliga a domandarti come avresti reagito tu, cosa avresti fatto tu, che cosa saresti disposto ad accettare per avere un po’ di potere o la possibilità di cambiare la tua vita.
E l’aspetto più interessante di questa riflessione in Squid Game è il modo in cui viene trattata: non c’è giudizio e non c’è consolazione nel mondo creato da Dong-Hyuk Hwang, non c’è nessuna denuncia contro i crimini perpetrati e anche a raschiare il fondo delle proprie brutture non c’è rischio di venire giudicati. Tutto viene visto nell’ottica della sopravvivenza. Almeno per quel che riguarda i partecipanti al gioco.
E se all’inizio si può pensare che ci sia un motivo nobile alle spalle del gioco, una ricerca di un diamante grezzo in mezzo al pattume dell’umanità, ben presto ci si rende conto che la sola cosa che conta è restare vivo, restare in piedi. A qualsiasi costo.
Tuttavia Squid Game non avrebbe avuto il successo che ha raggiunto se non avesse messo in campo anche dei personaggi per cui tifare e con cui entrare in empatia.
Un compito che è stato messo sulle spalle del protagonista Gi-Hun. Quando la serie inizia, infatti, Gi-Hun è un uomo debole, vigliacco e detestabile, che se ne sta tranquillo in casa, a mangiare, mentre l’anziana madre, piegata in due, si reca al lavoro per pagare i suoi vizi.
Quando Squid Game prende il via, lo spettatore quasi prova fastidio per questo protagonista tanto debole nell’affrontare l’età adulta: un sentimento che sembra destinato a durare. Ma poi Squid Game ribalta le carte in gioco e pian piano quel fastidio iniziale diventa un sentimento di vicinanza, e Gi-Hun si tramuta quasi nel classico eroe dei racconti d’avventura.
Se non fosse che, nel mondo del gioco, non c’è spazio per l’eroismo, per la bontà. Tutto viene votato alla dea della sopravvivenza, perciò anche quando viene richiesto l’indicibile, l’indicibile viene portato a termine. E a nulla servono le lacrime, o il dispiacere: perché il male, una volta che ha preso il via, è sempre più affamato.
Eppure l’arco del personaggio di Gi-Hun è davvero ben fatto e ben scritto, al punto che vi spingerà in più di un’occasione a domandarvi perché avete gli occhi colmi di lacrime quando state vedendo una serie sulla violenza e la corruzione dell’animo umano.
Squid Game o dell’inutilità dell’originalità
Squid Game è una serie originale? Presenta allo spettatore qualcosa di assolutamente nuovo? La risposta è no. Si tratta di un’opera derivativa che deve molto a prodotti che l’hanno preceduta: da Battle Royale a The Cube, passando per Old Boy, la serie di Dong-Hyuk Hwang è piena di rimandi e déja-vu che arrivano fino a Hunger Games.
Ma l’originalità non sempre è un dato che, da solo, basta a fare il successo di una serie. Perché anche se somiglia a moltissime altre cose è indubbio che Squid Game funzioni alla perfezione: un po’ per lo stridio tra violenza e gioco da bambini, ma soprattutto per la capacità di creare una tensione sempre crescente che spinge lo spettatore a divorare la serie, nonostante i quasi 60 minuti di durata di ciascun episodio.