Consigli d’Autore: 5 Film da vedere
3. Gioventù Bruciata – Nicholas Ray (1955)
Platone: Jim, pensi che la fine del mondo arriverà di notte?
Jim: All’alba
Una nuova rubrica dedicata al Cinema d'Autore: film di nicchia da scoprire e da vedere almeno una volta nella vita. Ecco i nostri consigli di Settembre 2021.
Platone: Jim, pensi che la fine del mondo arriverà di notte?
Jim: All’alba
Gli anni cinquanta per gli Stati Uniti simboleggiano un periodo di transizione molto turbolento, caratterizzato da notevoli cambiamenti nel modo di pensare e di consumare da parte della popolazione. L’avvento della televisione altera radicalmente l’industria, muta i costumi e il mito americano, ma soprattutto si rende complice di un calo del fatturato per quanto riguarda le sale cinematografiche. È la crisi per Hollywood, ma un’opportunità per il cinema per comprendere meglio se stesso. Si torna a ripensare alle metodologie e al linguaggio della settima arte. Si avviano di conseguenza, in risposta al trionfo del piccolo schermo, una serie di operazione volte ad aggiornare e ad arricchire le nuove produzioni di meccanismi impossibili da trasportare, almeno a quei tempi, altrove.
Uno sviluppo orizzontale all’interno dell’economia del cinema che però non ebbe lunga durata, per quanto vincente, e che diede trasversalmente una lezione, purtroppo poco ascoltata, sul come il fallimento è pressoché inevitabile quando le modifiche alterano troppo le regole originarie del medium in questione. Il Cinemascope però non rientrò mai in suddetta categoria, cosa che invece successe, molti anni più tardi, al 3D, tecnologia che diede sempre scarsi o poco duraturi risultati. Il punto però era uno soltanto: serviva qualcosa o qualcuno che potesse catalizzare l’attenzione delle nuove generazioni, che rispondesse alle loro esigenze. I divi degli anni Trenta e Quaranta non erano più in grado di esercitare il loro fascino e i loro valori non erano più attuali, ci serviva dunque qualcosa di nuovo.
Parlare di Gioventù Bruciata è un pò come riflettere sulla figura di James Dean, sul suo mito e di quel che accadeva in quel periodo negli Stati Uniti. Sono elementi indissolubili tra loro, elementi che fanno dell’opera di Nicholas Ray un film di costume, oltre che un manifesto ideologico e culturale di quegli anni. Un setting caratteriale, quello portato avanti dall’attore, inscindibile dal proprio personaggio, un volto iconico che si ripeterà nel medesimo modo per tutte le opere in cui sarà protagonista. Un modello caratterizzato da mimiche, gestualità e parole calcolate, pensate per generare un fascino da trasporre poi all’indole ribelle, pseudo anti-conformista, dell’attore, archetipo di una generazione. Un processo che con il tempo ha generato il culto che l’industria aveva bisogno per poter sopravvivere al suo periodo di crisi.
La sua fuga da casa, qui intesa come sovversione all’ordine morale, avviene principalmente a causa di un ribaltamento dei ruoli e delle dinamiche all’interno della sua famiglia, la sua fuga punita poiché giovane e quindi bisognoso di crescere. Gioventù Bruciata è perciò un racconto sospeso tra il sogno e la sua decadenza, fra la ricerca di un mito e la conseguente disillusione, tra quel che si fa e ciò che costa. La morte che pone fine alle fantisticherie dei protagonisti ha un qualcosa di programmatico e di evocativo, di simbolico. Un evento necessario per divenire adulti.
In sintesi il film di Nicholas Ray racconta le ossessioni e le pulsioni di una generazione incompatibile con i suoi tempi, incapace di comunicare con gli enti di riferimento e che viene sedotta costantemente dalla morte. La decadenza si ritrova anche in questo, non solo nella scenografia utilizzata per descrivere il rifugio idilliaco dei tre ragazzi. Un edificio spettrale e abbandonato dove si innesca una ricerca di un senso più profondo da parte dei protagonisti, una ricerca che diventerà ancor più simbolica nella sequenza del planetario.
Le gare automobilistiche, le lotte con i pugnali e l’epilogo infausto sono tutte sequenze che raccontano di un turbamento, eventi intesi simili a dei rituali di passaggio da dover affrontare per sconfiggere la morte e diventare grandi. Un coming of age fatalista che si chiarifica come tale fin dall’emblematica introduzione nella stazione di polizia, racconto di un’America impreparata a gestire il proprio futuro e le conseguenze delle sue azioni.
Gioventù Bruciata in conclusione è un film che unisce il cinema classico statunitense con quello che, molto lentamente, si stava affermando il paese, ottenendo la perfetta soluzione per raccontare di un’epoca e della sua generazione. Un’opera immancabile per la nostra rubrica sui consigli d’autore.
Abel Ferrara ne L’Angelo della vendetta non si preoccupa di essere rigoroso nel mostrare la società americana, assicurandoci magari che non tutti gli uomini sono dei violenti, ma piuttosto si concentra a raccontare le conseguenze psicologiche di un trauma e di come viene percepito un disagio dal diretto interessato. La narrazione quindi non risulta di certo accomodante per un certo tipo di pubblico e si fa carico di tutte le emotività possibili per richiamare l’attenzione dello spettatore su una problematica stringente, tristemente ancora attuale.
Sono le immagini stesse ad assumersi il compito di turbare lo spettatore, ad usare quella violenza, piuttosto esplicita per l’epoca, come uno strumento per enfatizzare il dramma, per renderlo più vero e stimolante. Il cinema statunitense, finalmente libero da molte imposizioni morali e formali, riscopre il corpo e le pulsioni, avviando di conseguenza produzioni meno edulcorate e più audaci, più dirette per dei giovani in tumulto.
C’è tanta politica in queste scelte, intrise di retorica, ma molta volontà di riformare lo spettacolo in base a nuove sensazioni e suggestioni. L’orrore e l’erotico trovano nuova espressione in un corpo da violare, rendendolo un manifesto vivente di intenti e idee. L’attrazione di quel periodo diviene dunque sentirsi/far sentire scandalizzati attraverso una violenza nei confronti della carne e dell’umano.
L’Angelo della vendetta è, a differenza di altri film d’autore come Non violentate Jennifer, L’ultima casa a sinistra, Cane di Paglia e La fontana della vergine, un rape and revenge metropolitano, ergo ben lontano dalle tanto criticate realtà rurali di quegli anni, e che fa della società americana un luogo meno sicuro. Nel caso del film di Abel Ferrara la minaccia infatti è quotidiana, è dentro casa, è nascosta dietro volti amichevoli ed è generatrice di altra violenza.
Un binomio esasperante e che trova la sua massima esplicitazione nella sequenza finale della festa dove Thana, protagonista dell’intreccio, vestita da suora sexy prima seduce e poi punisce la borghesia statunitense. Abel Ferrara non fa sconti e fa del suo personaggio una metafora da cui far passare ogni sotto-testo possibile. L’impossibilità di parlare della donna, ad esempio, è solo un modo beffardo di rappresentare la categoria, mai troppo ascoltata ed aiutata, spesso condannata la dove doveva essere protetta. Una figura che agisce in base ad una giustizia divina per punire un’America che fino a quel momento aveva giudicato solo chi era al margine e che ora era costretta a pagare il fio della propria arroganza.
Daniel: Addio, Jennifer, sii cattiva.
Negli anni Trenta e Quaranta si afferma negli Stati Uniti un nuovo modo di concepire la commedia, una sottocategoria in grado di dare forza ai valori tradizionali americani e di consolidare l’identità di una nazione pre e post Seconda Guerra Mondiale. É la nascita della commedia del soprannaturale, è il cinema che fa delle entità sovrumane uno strumento per veicolare pensieri e parole allo scopo di non far vacillare la morale comune.
I personaggi cardine di queste storie sono infatti un qualcosa di superiore all’uomo, perlopiù angeli e fantasmi, e hanno la funzione di rassicurare il popolo in un periodo socio-politico incerto e di tensione: Dio, o chi per lui, è dalla parte del popolo e della sua cultura, crede in quel che è sempre stato.nUn’idea che si fa arte, ma non propaganda in senso stretto, lasciando emergere, almeno in certi casi, il lato giocoso e divertente della cosa.
Se da una parte, come ad esempio in La Vita è meravigliosa di Frank Capra, viene messa in scena una ricerca dell’identità e dei valori perduti dal lieto fine, grazie alle azioni perpetrate dal divino, con il conseguente ripristino delle istituzioni e della tradizione, dall’altra invece, in La donna e lo spettro di George Marshall, giusto per nominare un titolo, le meccaniche sono più alleggerite e volte al divertimento, per quanto sempre incentrate sulla messa in discussione della realtà.
La speranza e il bello, tirando le somme, sembrano quindi provenire dall’alto dei cieli o dall’ignoto, un fattore che verrà poi meno dopo lo sgancio delle atomiche su Hiroshima e Nagasaki, dando il via a differenti tipi di narrazione (alieni e terrore atomico). Agli inizi degli anni Quaranta però giunge negli Stati Uniti René Clair che, con il suo sguardo da straniero, cambia le carte in tavola della commedia soprannaturale
Ho Sposato una strega è un film che si destreggia abilmente tra toni più rilassanti ed ironici, dettati principalmente dai dialoghi, e toni più cupi, estensioni dirette di un gotico ultra-stilizzato, frutto di quel rigore che René Clair ha sempre avuto nelle sue rappresentazioni.
Una rigidità che sembra affermare una volontà da parte del regista, ovvero quella di ibridare due tipologie di cinema differenti, chiari nella loro identità, per innescare una ricerca di stile e armonia, non tanto differente dalla ricerca di un equilibrio da parte dei due protagonisti, entità per natura contrapposte.
Quel che emerge dal racconto è in primis la plasticità dei corpi dei due “antagonisti”, spesso in trasformazione, in secondo luogo il forte erotismo sottinteso, insolito per l’epoca, e infine gli effetti scenici che fanno, assieme alla retorica dettata dal sonoro, il punto di congiunzione massimo fra la commedia e l’orrore. Un insieme di elementi che delineano una storia in cui l’amore è l’unico fenomeno sociale in grado di riscattare l’individuo, così forte da far negare a chiunque il proprio sistema di valori.
Irene, dopo aver mutato forma per tutto il film, possibilità resa nel concreto dal voice over, ergo da un ragionamento sulle meccaniche di rappresentazione, ottiene carne ed ossa, rinunciando di conseguenza alla vendetta, ma solo dopo aver riconosciuto nell’uomo il proprio dolore. Quel che porta il divino ad abbandonare la propria rappresaglia è perciò l’umanità in sé, salda nei suoi valori, coerente con la sua fragilità.
Il lato surreale di Ho Sposato una strega, in conclusione, è un divertissement che fa dei classici rapporti sentimentali, caratteristici della commedia romantica, un nuovo punto d’attrazione per lo spettatore. La briosità dalla narrazione nasce infatti dalle parole, dalla gestualità, dagli stili, spesso contradetti nella loro consueta retorica, dagli sguardi maliziosi di Veronica Lake e dagli effetti speciali in chiave comica.
Quella di René Clair è una lezione di cinema che ricorda che basta semplicemente un’inquadratura su una bottiglia con un voice over aggiunto in fase di montaggio per parlare di immaterialità ed innescare il metafisico.
Sperando che questa rubrica sia stata di vostro gusto, vi diamo appuntamento al prossimo mese con altri consigli d’autore. Se volete altre imbeccate del genere, troverete qui la nostra rubrica dedicata ad Amazon e Cinema d’Autore.