Ecco perché i parchi Disney sono “i più felici del mondo”
Come sappiamo, Disney ha sempre perseguito una politica della “felicità”. I film della casa d’animazione, sempre pregni di sentimento e finali lieti, sono costruiti, così come ogni attività del colosso americano, per soddisfare, allietare e rendere contenti i consumatori.
Ragion per cui nei parchi a tema (le varie Disneyland e affini) che fanno capo alla multinazionale, vige una politica ancor più rigorosa per ciò che concerne il comportamento di coloro che vi lavorano. Questo non riguarda solo le varie mascotte vestite da Paperino o Pippo, ma praticamente ogni impiegato ufficialmente sotto contratto con Disney.
Penserete: bene, quindi gli impiegati dei suddetti parchi non dovranno imprecare o proferire profanità poco adatte ai più piccoli. Anche, ma non è tutto qui. Il fatto è che i parchi divertimento, così come i film e appunto ogni prodotto dell’azienda, nascono e sono stati pensati come tante parti di un unico spettacolo.
E da chi? Ma da Walt Disney stesso, naturalmente. In quanto narratore e creatore di storie, Disney credeva che qualunque suo impiegato svolgesse, con il suo proprio lavoro, un ruolo in un certo senso comunque attoriale e che con la sua attività facesse nel suo piccolo “avanzare la storia”.
Ecco perché, prima ancora della nascita della prima Disneyland, ne 1955, già i suoi dipendenti erano considerati “cast members”, membri del cast. Come attori di un unico, gigantesco film, che Disney ha iniziato e che i suoi eredi stanno tuttora girando e distribuendo a pezzetti e in formati multimediali.
Quindi, le tre parole che un impiegato Disney non può dire sono: non lo so. Proprio così, queste tre: “I don’t know”. Pensateci. Se siamo in un unico grande spettacolo, quando mai un attore domanda qualcosa ad un altro e questi risponde “Non lo so?” Mancherebbe la battuta, a quel punto lo spettacolo si interromperebbe.
Invece, ogni impiegato Disney essendo un “cast member”, non può permettere che la “magia” venga meno, mai. Naturalmente, dietro a questa ragione molto retorica e molto “americana” sulla scelta delle tre parole “vietate”, ce n’è un’altra molto più pragmatica e di natura organizzativa.
Se a Disneyland un bambino chiede alla mascotte vestita da Winnie the Pooh, per esempio: “Come sta Tigro?”, immaginatevi la delusione a sentirsi rispondere “Non lo so”. Per i bambini, specialmente, Disneyland dev’essere un luogo speciale, così come speciali sono i regni della fantasia che può esplorare con i film Disney.