Halsey – If I Can’t Have Love, I Want Power | RECENSIONE

Halsey
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Halsey esplora il dualismo tra la Madonna (vergine) e putt*na (parole sue) nell’essere donna e madre, in un album dark pop mascherato da esperimento industrial

La grande notizia: Halsey collabora, nel suo nuovo album, con Trent Reznor e Atticus Ross. I Nine Inch Nails. Tralasciando il fatto che una notizia del genere sarebbe stata incredibile anche solo fino a cinque anni fa (ma molte cose sono cambiate nel frattempo), la cosa crea chiaramente delle aspettative. E non solo per il possibile risultato della collaborazione: di album in album, Halsey si erge sempre più quale anti-popstar e icona musicale alternativa.

E in questo senso, manco a dirlo, l’obiettivo è raggiunto. Nel suo nuovo disco, If I Can’t Have Love, I Want Power, la cantante riflette sul trauma della gravidanza, per lei purtroppo in passato risoltasi in un aborto spontaneo per via di una condizione clinica, l’endometriosi. Quest’anno, finalmente, il suo primo figlio è venuto al mondo e da qui una serie di riflessioni sul ruolo della donna come madre, sul sesso e, naturalmente, sulla figura femminile nella società.

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Tra empowerment, #MeToo e rielaborazioni di un passato per molti versi traumatico, Halsey lascia andare tutto il marcio che ancora tratteneva per sé, cedendo al suo lato “oscuro” ed assurgendo a nuova signora del dark pop al fianco di Billie Eilish e Grimes. Ciliegina sulla torta: la foto di copertina, con lei seduta a seno scoperto su una specie di trono e il neonato il braccio. Vorrebbe esserre una parodia di Maria Vergine, ma francamente ricorda più lady Lysa Arryn di Game of Thrones.

“La dicotomia della Madonna e della Troia. L’idea che la me come essere sessuale e il mio corpo come alcova e regalo per il mio bambino possano co-esistere pacificamente e potentemente”, dice Halsey, descrivendo la copertina (e quindi il disco) su Instagram. E si parla anche di “Reclamare la mia autonomia”, “Stabilire il mio orgoglio e forza come forza vitale ed essere umano”. Vuole poi: “Eradicare lo stigma sociale attorno ai corpi [femminili dopo il parto] e l’allattamento al seno”.

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Che tutto questo ci sia, in canzoni e copertina, va bene e si coglie. Di certo sentiamo un disco ambizioso, importante e che trascina Halsey su tutto un altro livello rispetto a colleghe e colleghi di provenienza pop. Una direzione del resto già intrapresa, e qui semplicemente decisa in via definitiva. Ma com’è musicalmente? C’è un po’ di tutto, ma sempre molto dark: industrial, punk, grunge, elettronica. La collaborazione in ogni singola traccia di Reznor e Ross (di fatto un disco scritto a sei mani) certo aiuta.

Tuttavia, l’insieme riesce meno rivoluzionario e d’impatto di quanto le premesse lascerebbero credere. Le canzoni davvero ben riuscite sono fondamentalmente tre: Girl is a Gun, Whispers e I’m Not a Woman, I’m a God. La chiara impronta NIN si sente ovunque ma del resto Halsey va premiata già solo per la scelta controcorrente di affidarsi a loro. Una rivoluzione? Per lei, di sicuro, e anche un grande passo avanti. E ormai è acclarato: non possiamo più definire Halsey una artista pop; se non appunto, “dark”.