Ci sono tanti, tanti album validissimi che per una ragione o per l’altra non sono passati alla storia quanto meriterebbero. Eccone menzionati qui alcuni
Sappiamo che ci saranno, tra voi, musicofili espertissimi di tutti i maggiori lavori musicali di sempre. Parliamo specialmente degli album, l’unità di misura più comune per l’arte sonora registrata, migliori di tutti i tempi. Da quando il formato LP è diventato prassi, cioè dalla metà del secolo scorso, in tanti hanno tentato di compilare liste del genere.
E che dire, invece, di quei titoli che, per svariate ragioni, regolarmente sfuggono a questi elenchi? Dischi magari non necessariamente rivoluzionari, non per forza radicali e non di particolare successo. Ce ne sono tanti che, nonostante questi svantaggi, varrebbe la pena di riascoltare e riscoprire subito.
Ci riferiamo ad artisti di nicchia o, anche, a nomi celebri che nella propria discografia vantano sia album importanti che titoli secondari da riprendere. Gioielli nascosti nel tempo, dimenticati da una musicofilia sempre più preda di elitismo e hype, per godere dei quali occorrerebbero piuttosto pazienza e ore da investire.
Iniziamo quindi a fare dei titoli, prendendo un disco per decennio a partire dagli anni ’60 (prima non ha molto senso) e spaziando tra i diversi generi. Vi elenchiamo una serie di ascolti sorprendenti, a cui dedicarvi subito se davvero siete musicofili e specialmente se vi considerate curiosi ed eclettici nel gusto. Iniziamo.
The Mothers of Invention – We’re Only in It for the Money, 1968
La satira e la parodia completa non solo della musica, ma di tutta la cultura degli anni ’60. Dietro a questo grande manifesto contro-culturale (in tutti i sensi) c’è il genio incontrollabile di Frank Zappa, scettico di fronte a qualunque idea e a qualunque ideologia. Nel prendere in giro gli stili musicali in voga, non si risparmia e non usa mezzi termini.
E non è un caso che la sua parodia parta proprio dai Beatles, ridicolizzati (previo consenso di Paul McCartney, però) già dalla copertina. Nell’album, un coacervo di suoni che si spostano spasmodicamente dall’auto-referenziale all’iconoclasta, Zappa decostruisce ogni significato retorico di ciò che il rock è diventato nel 1968: ci siamo solo dentro per i soldi.
Tra il rock sperimentale e il proto-prog, passando per gli avanzi dei tentativi di musique concrete intrapresi ambiziosamente in Lumpy Gravy (1967, ma uscito in un’altra versione nel ‘68), We’re Only in It for the Money non lascia fuori nessuno: hippie, estremisti di destra, corporativizzazione della cultura giovanile. E nel mentre, mostra come si fa la musica “vera”.
The Stranglers – Rattus Norvegicus, 1977
Spesso identificati come parte della prima ondata punk rock originale inglese, gli Stranglers in realtà si distinguono fin da subito per un approccio musicale eclettico e fantasioso che forza i confini musicali (e anche quelli ideologici) del genere nichilista così come è noto a quel tempo. Nelle loro canzoni c’è molto, molto di più.
Basta ascoltare questo loro disco d’esordio, pubblicato dopo una gavetta nei pub inglesi (da qui il termine pub rock spesso associato a loro). Un rock apparentemente crudo e ruvido, energico e intrasigente; ma che mostra in realtà una preparazione strumentale e un’ambizione compositiva degna delle band del rock classico.
In questo primo lavoro si intuisce già come gli Stranglers siano in grado di trarre dalle ispirazioni più svariate la spinta per costruire sull’ossatura punk delle loro canzoni fantastiche architetture barocche che, di lì a poco, si coloreranno delle tinte della new wave. In definitiva, una perla di disco e anche punto di partenza di una carriera grandiosa.
Talk Talk – Spirit of Eden, 1988
Vero, l’album della decostruzione musicale e della carriera dei Talk Talk non è esattamente sconosciuto e viene regolarmente citato nelle liste dei lavori di culto. Ma anche così, la reale portata dell’incredibile lavoro svolto qui dalla band inglese ancora non viene compresa appieno.
Che Mark Hollis e colleghi, dalla cima delle classifiche con i loro successi new wave/synthpop, si immergano in questo coacervo di suoni organici e rarefatti, rari e sperimentali, non è cosa da poco, specialmente in una decade come quella degli anni ’80. Un miracolo, considerando le premesse e il loro nebuloso avvenire.
Eppure, la band riesce a demolire ogni convenzione musicale legata alla scena inglese dell’epoca, andando oltre chiunque altro (o meglio, fuori da qualunque linea) e rinchiudendosi in un universo di arte e stile fatto di una unicità esemplare. Ancora oggi, c’è di che esserne ammirati. E poi, certo: il disco è da brividi.
Collective Soul – Collective Soul, 1995
I Collective Soul vengono inizialmente venduti come nuovo grande fenomeno grunge, specie a partire dal successo del loro singolo Shine, nel 1993. Un’etichetta che sta stretta ad Ed Roland e alla sua band, che con il secondo album (questo) decidono di scrollarsela di dosso.
Il risultato è un rock alternativo spontaneo, pregno di spunti e direzioni che esulano dalla moda del grunge (ormai post-) così come dalle altre tendenze maggioritarie a metà anni ’90. Un rock chitarristico, moderno e classico a un tempo, perfettamente gradevole per il pubblico alternative ma allo stesso tempo sorprendentemente originale.
Oggi rimane, purtroppo, il picco creativo della band, che in seguito non riuscirà a replicare idee musicali di pari livello. Un lavoro straordinario, nascosto tra le pieghe di un decennio fruttifero come gli anni ’90, proprio in virtù della sua ri-definizione di un approccio a un intero genere a un’intera attitudine compositiva. Da riscoprire prima di subito.
The Postal Service – Give Up, 2003
In un periodo in cui le melodie synthpop stile anni ’80 ricostruite ancora sono lungi dall’andare di moda e a malapena si inizia a parlare di indie, Ben Gibbard e Jimmy Tamborello si inventano un lavoro che riunisce queste due cose e si risolve in uno degli album più profondi, discreti e sussurrati degli anni ’00.
Una tracklist che di quel decennio sembra in effetti riprendere la vacuità, il vuoto di senso post-9/11 e la neonata ricerca, da intraprendere tutta daccapo, di una fragilità interiore da riconsiderare alla luce di una modernità che spaventa come mai prima. Il risultato: una collezione di canzoni indie synth (si dice: indietronica) dalla bellezza e purezza uniche.
Purtroppo il progetto muore quasi subito. Il duo lo intraprende più per caso che per calcolo (cosa che del resto sta alla base della sua intera riuscita) e non ci sono mezzi per, né troppe intenzioni di proseguire. Rimane una specie di silenzioso grido nel vuoto, emblema poetico di un canto fuori dal coro in un’era in cui tutti gli altri sembrano solo stonati.
Grimes – Geidi Primes, 2010
Anni e anni prima dello splendore dark pop auto-ironico per il quale la conosciamo oggi, Claire Boucher è solo una giovane nerd interessata ad auto-produrre la sua musica, senza mire particolari. Forse anche per questo, lo fa in maniera completamente atipica: con un concept album basato su Dune di Frank Herbert (sì, il romanzo da cui è tratto il film di Villeneuve)
L’approccio di Grimes in questo primo lavoro è completamente anti-hype: una musica a tratti indie, a tratti prog, a tratti synth, di quel synth nostalgico che piacerà poi ai millennial. Un’ideologia lo-fi, atmosfere già dark ma più misteriose che inquietanti, e riprese concettuali dei motivi del racconto che si affidano più a passaggi strumentali che a considerazioni liriche.
Riascoltato oggi: un vero trionfo di idee e intuizioni. Un disco che sta alla base di tutto ciò che poi Grimes costruirà negli anni a venire, ma impreziosito di per suo da una certa ingenuità giovanile che si affida ad una fiducia nelle possibilità dell’arte che poi, per lei, sarà difficile riprendere.