I 5 film da vedere per scoprire Ingmar Bergman [LISTA]

Ingmar Bergman è stato uno dei registi più innovativi di tutti i tempi. Vediamo 5 opere che hanno affascinato tutto il mondo.

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Persona (1966)

Persona, Ingmar Bergman, 1966
Il famigerato incipit di Persona

L’attrice Elisabeth Vogler (Liv Ullmann) durante una rappresentazione viene colta da un’inspiegabile voglia di ridere, per poi cadere in un improvviso mutismo. Si prende carico di rimetterla in sesto l’infermiera Alma (Bibi Andersson), che la porta in una spiaggia isolata. Tuttavia, essendo l’unica a riuscire a parlare, sarà quest’ultima ad aprirsi e confidarsi con la paziente…

Innanzitutto, il titolo deriva dalla locuzione latina Dramatis persona, che indica la maschera indossata dall’attore nel teatro romano. Tema cardine del film è, quindi, il doppio, come anche si evince dalla diagnosi della dottoressa (Margaretha Krook). Elisabeth, infatti, insegue “un sogno disperato”: capire cos’è per gli altri e cosa per se stessa, ossia il confine tra realtà e menzogna.

Ma la confusione tra le due è tale che esse perdono di significato, rendendo vano ogni tentativo di distinzione. Lo stesso, però, vale per l’infermiera, che col suo eccesso di eloquio finisce per rivelare tutto di sé all’attrice. Avviene, quindi, una sovrapposizione tra le due tale che non è più ormai chiaro quali fatti appartengano all’una e quali all’altra. Ingmar Bergman contribuisce alla confusione disseminando il film di immagini astratte legate all’inconscio (ma di chi delle due?).

L’essenzialità dell’ambientazione, inoltre, non fa che portare il conflitto delle due in una dimensione estemporanea. A livello di regia Bergman tende a sovrapporre le attrici nell’immagine e ad affiancarle, conferendo ai loro corpi un’interessante fluidità. Ciò si deve sia al fatto che esse sono in uno stato di cambiamento e confusione, sia al loro continuo rincorrersi.

L’indimenticabile fotografia di Sven Nykvist ottiene un bianco e nero che racchiude una potenza visiva senza precedenti. Persona è senza dubbio uno dei capolavori del 1966, come conferma la recensione positiva attribuita da Alberto Moravia al film. Ma non bisogna dimenticare le splendide interpretazioni di Liv Ullmann e Bibi Andersson, collaboratrici instancabili del regista svedese.

Sussurri e grida (1972)

Sussurri e grida 2
Una scena di Sussurri e Grida

La vicenda prende forma agli inizi del Novecento. Agnese (Harriet Andersson) è una ragazza con una malattia terminale in procinto di morire. Assistono la donna le due sorelle, Karin (Ingrid Thulin) e Maria (Liv Ullmann), e la governante Anna (Kari Sylwan). La dolorosa situazione mette a nudo i caratteri e i fantasmi delle due sorelle, mentre è Anna a prendersi realmente cura di Agnese…

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Sussurri e grida è forse il film più doloroso di Ingmar Bergman, che abbandona ora ogni sfumatura di ironia. Come intuibile, torna il tema della morte, inesorabile e imminente, come dimostrano i continui ticchettii degli orologi. La morte è posta in relazione alla famiglia, analizzata in ottica sociale. Infatti, le due sorelle protagoniste sono in un rapporto conflittuale sia tra di loro che con i rispettivi mariti. Ogni tipo di affetto è rifiutato, lasciando adito a distacco e freddezza.

L’unico spiraglio di umanità è dato dalla umile serva, Anna, che assiste concretamente Agnese nei suoi ultimi giorni. Ingmar Bergman e il fotografo Sven Nykvist, in una scena, rappresentano le due ispirandosi alla Pietà di Michelangelo. Ecco, quindi, che non c’è più sentimento nella borghesia, solo l’estrazione più semplice rappresenta un baluardo per l’umanità.

I colori sono allegorici e sono legati a stati d’animo e sentimenti del film. Il bianco rappresenta l’innocenza e la purezza e si vede soprattutto ad inizio e fine film, con un significato molto diverso. Il nero è il colore del lutto, ma è indossato anche dal dottore, amante di Maria, e dal prete, che dalle sue parole pare dubitare del Paradiso. Il rosso, invece, è il colore principale, rappresenta il dolore che pervade l’intero film. Non a caso, esso colora l’intero schermo nelle transizioni da una scena a un’altra.

Stilisticamente, Bergman e Nykvist, premiato con l’Oscar, costruiscono una scena tanto minimale quanto meticolosamente elaborata. Abbondano i primi e primissimi piani per analizzare bene le varie psicologie, mentre per i movimenti le carrellate e le panoramiche. Spesso vengono anche effettuati giochi con gli specchi. Interpreta la grandiosa sceneggiatura un cast preparatissimo a tradurre in emozioni la più totale mancanza di autentica emotività.

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Fanny e Alexander (1983)

Fanny e Alexander 1982 1983
Fanny e Alexander, protagonisti dell’omonimo film

Il film segue le vicende di una famiglia di attori teatrali nella Svezia dal 1907. I protagonisti sono i bambini Fanny (Pernilla Allwin) e Alexander (Bertil Guve). Però, l’opera racconta anche le storie di altri membri della famiglia Ekdahl. Ciascuno di loro vive un proprio conflitto personale.

Premessa: per quanto il film sia uscito nel 1982, Ingmar Bergman ha concepito il suo testamento poetico in una versione più lunga. Pertanto noi considereremo la versione integrale di 312 minuti, forte di tutte le parti fantastiche eliminate nel passaggio sul grande schermo. La versione integrale di Fanny e Alexander è stata distribuita in televisione nel 1983, divisa in 4 parti.

Essendo l’opera ultima, il film porta con sè tutti i temi cari a Ingmar Bergman. Innanzitutto il conflitto famigliare, raccontato attraverso intrecci amorosi, coppie in crisi. La figura del vescovo (Jan Malmsjo), oltre ad essere il patrigno malvagio e rigoroso di Alexander (e di Bergman), introduce al tema religioso. Mentre la Chiesa è criticata per la corruzione e le spregiudicate punizioni, Dio viene sia ricercato che canzonato. Al cristianesimo, però, si aggiunge la componente giudaica, data da Isak (Erland Josephson).

Il tempo e lo spazio vengono definiti inesistenti. Infatti, nessun personaggio invecchia negli anni e la vicenda è in bilico tra teatro e realtà. Viene altresì aggiunto che è l’immaginazione che tesse nuovi disegni. Ecco, quindi, che torna la dicotomia realtà-maschera, ma quest’ultima, più che essere menzogna, è un luogo di fuga da una vita opprimente. In ultimo, il tema della morte, temuta e scongiurata per personaggi positivi e invocata per personaggi negativi.

Ingmar Bergman realizza molte inquadrature fisse, costruendo con Sven Nykvist veri e propri dipinti. Il regista riesce poi a fondere perfettamente reale con fantastico. Sono infatti presenti alcune animazioni a statue o marionette, oltre a personaggi fantastici derivanti dall’inconscio.